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Storia della Letteratura Romana

Cesare Tamagni
Francesco Vallardi Milano, 1874, pagine 590

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a cura di Federico Adamoli

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   CAPITOLO I. —1 CONSIDERAZIONI GENERALI. 7
   prò Murena, e qualcheduna dello catilinarie e delle filippiche. Perocché sappiamo da Cicerone medesimo, ch'egli scrisse la maggior parte delle sue orazioni dopo averle pronunziate, e taluna, come appunto la Miloniana, anche molto tempo dopo; altre poi, quali, per modo d'esempio, la seconda parte delle Verrine e la seconda filippica, o non le potè, o non le osò recitare (1). Quindi a noi non è lecito misurare l'intendimento ed il gusto letterario delle moltitudini che faceano corona all'oratore, per animarlo cogli applausi, o talvolta per atterrirlo colle minaccie, dalla bellezza di queste scritture, che non sappiamo di quanto si lasciassero ndietro nella composizione e nella torma del dire le arringhe che veramente erano state pronunziate. Comunque sia di questo, è però certo e chiaramente appare dalla storia di tutto le grandi lotte civili de'Romani, che anche in quei tempi quando non si conosceva altro precetto del dire fuor quello insegnato dal vecchio Catone : rem tene, verba sequentur, per ragioni che ognun vede e che sono affatto indipendenti dal maggiore o minor grado di dottrina nell'oratore, o di perfezione nell'arte, l'eloquenza dovette essere sempre potentissima sull' animo delle moltitudini. Del resto gli è questo un fatto che si ripete presso tutti i popoli; i quali non appeua un'alta cagione li mova, seguono volonterosi e talvolta ciecamente il consiglio di chi sappia con efficace parola persuaderli. Quantunque io credo che in nessun luogo sia mai stato si diffuso e durasse tanto lungamente l'amore dell'eloquenza, come a Roma; dove la vediamo invadere e dar forma a pressoché tutta la letteratura. E in verità (per tacere delle arringhe inserite nelle istorie, che le hanno anche i Greci, e quasi fino ai nostri giorni furono usate eziandio dagli scrittori moderni), avrò più d'una volta occasione di mostrare nel corso dell' opera come l'eloquenza s'introducesse anche nella poesia romana, dandole una intonazione ed un colorito qua e là così proprio, che in molti rispetti la distingue dalla poesia greca, della quale essa è pure, come già dissi, discepola ed imitatrice.
   E qui mi piace avvertire ancora una volta clic dicendo essere le lettere e l'arte romana derivate dalla Grecia, non si volle da nessuno intendere che manchi a quelle ogni pregio di originalità, e che i Romani abbiano seguito così umilmente gli esemplari greci, da non lasciare traccia del proprio carattere nazionale nelle opere che venivano componendo. Fu già veduto dapprincipio come il carattere tutto severo e pratico dell' antica Roma impronti ogni genere, e quasi ogni scritto della letteratura, e come fosse rigidamente osservata la massima, che subordinava ogni studio ed ogni opera alla ragione ed alla utilità dello stato. Questa era la norma di ogni pensiero e d' ogni atto del cittadino romano ; era, se così posso esprimermi, la legge morale che ne regolava tanto la educazione, quanto la condotta — «Neque enim, dice M. Tullio nell'aureo libro de Repub. (1. 4, e 20), liac nos patria lege geuuit aut educavit, ut nulla quasi alimenta expectaret a nobis.., sed ut piurimas et maximas nostri animi, ingenti, consilii partes ipsa Islbi ad utilitatem suam pigneraretur; tautum-que nobis in nostrum privatum usum, quantum ipsi superesse posset, remitteret. — Quid esse igitur censes discendum nobis, ut istud efficere possimus ipsum quod po-stulas1? Eas artis quse efficiant ut usui civitati sinius: id enim esse prfoclarissimum sapientise munus, maximumque virtutis vel documentum vel officium puto>->.
   E questo sentimento di giovare alla patria ; questa coscienza della gloria e della grandezza di Roma, che ogni cittadino recava con sè qualunque cosa facesse o dicesse in prò dello stato, quest'orgoglio d'essere e di sapersi parte di quella città che coli' armi e più forse colla sapienza signoreggiava il mondo, si manifesta ili ogni genere della letteratura romana: nella poesia, non meno che nella prosa, nel gajo e voluttuoso Orazio, non meno che nel casto e gentile cantor di Enea, in Cicerone ecl in Cesare, come .n Tacito ed in Quintiliano. È questo un primo tratto d'originalità , che noi troviamo ad ogni passo nelle lettere romane. L'idea di Roma, della sua potenza, della sua grandezza, che non perirà quando si seguano costau-
   (1) Vedi Tusc. IV, 28, e Brut. 24,