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Storia della Letteratura Romana

Cesare Tamagni
Francesco Vallardi Milano, 1874, pagine 590

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a cura di Federico Adamoli

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   LIBRO I'RIMO.
   Quanto siamo lontani dalle grandi feste ateniesi, quando il popolo s'accalcava nell'Odeon ad udire la recita dei canti d'Omero, ovvero ne'teatri sedeva religioso ascoltatore e giudice tra Escliilo e Sofocle, o batteva palma a palma ai frizzi d'Aristofane, che dalla scena scendevano a ferire le ridicolezze di tutti, e i vizii di questo o quel potentissimo cittadino ! Facendo di questi confronti giova ben riconoscere che l'aure popolari non spiravano in Roma favorevoli di molto ai poeti, giacché quel popolo alle delicate finzioni dell'arte preferiva in ogni caso lo spettacolo di azioni vive e reali. Di fatto come poteva cominoversi alle sventure di un eroe di tragedia o d'epopea, chi era avvezzo a vedere con occhio asciutto sgozzare ogni tratto nel circo le ceutiuaja d'uomini e di fiere? E le donne che assistevano pur esse a questi crudeli spettacoli, e plaudivano al gladiatore che sapeva morir con arte, come potevano educare nei figli, nei mariti o negli amanti quella sottigliezza d'ingegno e quella gentilezza di sentimento, che sono le doti prime per intendere ed imitare le opere dei grandi poeti ? L'occhio avvezzo al sangue non piange alle finte lagrime d'un istrione ; nè l'orecchio uso ai ruggiti delle fiere, agli urli ed alle minaocie mortali dei combattenti, alle voci ed ai lazzi volgari de' funamboli e de' ciurmadori può cogliere i motti arguti e le rapide facezie, che escon di bocca al servo ingannatore od alla lusinghiera cortigiana della comedia ateniese. E tale fu Roma sempre anello nei tempi che parvero più fausti alle muse; cosicché senza voler nulla levare alla gloria di Plauto, di Virgilio, d'Orazio
   Che le Muse lattar più di' altro inai
   possiamo per Roma ben convenire nella sentenza di Marco Apro, che: carmina etver~ sus, neque dignitatem ullam aiiclorìbus suis conciliant, neque utilitatcs alunt, ro-luptatem autem brevcm, laudem inanem et infructuosam consequantiir » (1). E questa ancora acquistata a gran fatica ; giacché io non so davvero se Orazio senza l'amicizia di Mecenate e la protezione d'Augusto avrebbe potuto finir la vita altrimenti che nel modesto ufficio di segretario del tesoro ; e Ovidio, che pur era nobile e ricco, sappiamo a che caro prezzo pagasse infine le amicizie e gli intimi favori della Corte. Plauto che gira la macina, e Terenzio il quale non osa apertamente negare che siano di Lelio le coinedie che scrive e fa in proprio nome recitar sul teatro, per tema di offendere il potente amico, cui tale fama sparsa nel pubblico non tornava sgradita ; provano assai, mi pare, in quali angustie versasse e di che ajuti avesse bisogno la poesia per vivere in Roma. Essa anche ne' tempi migliori fu sempre la dolce cura di pochi privilegiati intelletti, la predilezione delle classi più colte delle società, all'ombra delle quali come visse, così prosperò quasi sempre. Popolare non fu essa mai, più che noi fosse ogni altro genere di letteratura che non soddisfacesse ai quotidiani bisogni della vita, e richiedesse per essere inteso speciali condizioni d'ingegno e di dottrina, eziandio perchè popolare non fu mai la lingua nella quale era scritta: avendo, come già dissi, le moltitudini anche in Roma un proprio parlare distante per più rispetti dalla pura latinità, che era la nobile favella dei signori, degL uomini di governo e dei letterati.
   Più fortunata, per ciò che di sopra fu detto, e forse sola veramente popolare fu l'eloquenza in ogni genere ed ordine di cittadini, perchè con essa sola si trattavano tutti i negozii, con essa si vincevano davanti al popolo le cause che decidevano della fortuna e della vita dei cittadini, delle sorti di straniere geliti e città, della salute stessa della repubblica. E il popolo trasse in ogni tempo numeroso ad ascoltare i suoi oratori, accompagnandoli dapertutto con manifesti segni di stima e di favore. Certo noi non dobbiam credere che le orazioni pronunziate sia nelle concioni, spesse volte tumult uose, del popolo o della plebe, per difendere o combattere una proposta di legge, sia davanti a giudici, e sia anche nel senato, fossero tutte lavori d'arte così perfetti, come le orazioni prò Milùnc, prò SextioI
   (1) Tacilo, Dial. De Orai. c. 9.