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Processo fatto subire in Napoli nell'anno 1863 alla Principessa Carolina Barberini Colonna di Sciarra nata Marchesa di Pescopagano
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razione fatta circa un mese, dopo mentre «tu» motto fecero di ciò net loro rapporto v/Jtciale (come avrebber dovuto, trattandosi d'ingiurie gravi contro la persona del Re); non è già soltanto, che questi due agenti vorrebbero farci credere l'impossibile con questa superfetazione de'loro detti, quando vorrebbero darci ad intendere, che, a traverso un compartimento di legno levigato e compatto, e tra il rombo di un convoglio in movimento, si possano, non solo distinguere delle parole, ma distinguer chi le pronunzia, specialmente non avendo dimestichezza alcuna colle persone che parlano: ma è che, uditi i signori Timtngi e Toma-celli (giacché il sig. Santasilia non è stato udito) costoro hanno assolutamente niegato la esistenza del fatto. La principessa nonpertanto à ingenuamente convenuto che , essendosi nella strada veduta una bandiera rossa come segnale di fermata, Santasilia disse celiando: «t'amo in Repubblica — Ecco tutto.
« Si stabilisca adunque anche su questo proposito la veracità, e la intera veracità de'fatti. Le parole, menzionate nella sentenza appónevansi alla Principessa dai signori Leanza e Persico, in una loro dichiarazione di un mese dopo, e per aver creduto di udirle, a traverso un compartimento di legno, ed in mezzo allo strepito di un convoglio in movimento. Esse però erano stale taciute nel primitivo rapporto: esse furono smentite dai testimoni, che viaggiavano con la Principessa. Esse dunque vanno escluse, non già perchè la pruova sia insufficiente, ma perchè la pruova è insussistente, o per dir meglio contraddetta e smentita ».
Che direm poi della subordinala accusa di complicità necessaria nel suddetto reato di cospirazione, per aver ella scientemente ajulato ed assistito gli autori di esso nei fatti che lo facilitarono? Diremo che questo concetto, che pur manca di pruove giuri-
diche non altrimenti che il primo moralmente riguardalo si sostiene per avventura ancor meno, cade anzi nello assurdo.
E di vero poco più innanzi la Corte istessa avea detto: « Una donna dell'alta sua posizione sociale, nel prestigio delle sue relazioni e delle immense dovizie di casa Barberiui, dava importanza alla cospirazione col solo suo nome, senza che s'impicciolisse nelle particolarità delle operazioni de'cospiratori; particolarità che meglio si attagliavano al carattere d'un frate sedizioso, d'un Filippo Ferri d' un Palamede, d'un Abramo, ecc. ». Or, questa donna ch'era sì grande e cospicua da afforzare una cospirazione col solo suo nome, da non rimescolarsi con gli altri nei particolari della setta; era poi alla sua volta così abjetta e dimessa da sobbarcarsi a far la parte di messaggera, di emissaria, di manutengola a questa setta spregiata dei frati, dei Palamede e degli Abramo? E tale codesta una contraddizione, un assurdo, che non pur questo, ma il concetto dell'intera accusa a suo carico scrolla dalle fondamenta: imperocché, o cospiratrice, o settaria, o complice, è certamente inconcepibile che fosse così riserbata al servile uffizio di tabellaria. La spia di Cooper è un bel miracolo da romanzo: ma in una donna, in una dama, in una Barberini Colonna di Sciarra, questo miracolo sarebbe apparso sì strambo da eccitare il riso. Odasi fra' molti come ne ragiona Dumas.
a Dicemmo del principe d'Oltajano , imputato d'assoldar briganti, ed arrestato su quest'accusa — Chi è principe d'Otta-jano, chi discende dai Medici, chi conta fra' suoi antenati i nomi più chiari dell'Italia, chi à in oltre per sé una coscienza onesta ed un cuore leale, fa la guerra per difendere la sua opinione, il suo partito, il suo sovrano; ma non paga briganti per saccheggiare, stuprare, assassinare, incendiare. Ed