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La Patria. Geografia dell'Italia
Provincia di Napoli
Gustavo Strafforello
Unione Tipografica Editrice Torino, 1896, pagine 450

Digitalizzazione OCR e Pubblicazione
a cura di Federico Adamoli

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   Circondario di Napoli
   47
   Gli altri fenomeni vulcanici descritti sono assai simili come sono comuni a tutte le eruzioni consimili: ma la massa di ceneri, sabbia e pomice eruttata fu cosi immane che, non solo seppellì le città di Pompei e di Ercolano a pie' del vulcano sotto un cumulo di parecchi metri, ina sopraffece eziandio la più lontana città di Stabia, ove Plinio il Vecchio mori soffocato, e distese sull'intiero golfo una fitta nube di cenere che addusse un buio più profondo di quello della notte persino a Miseno lontano più di 24 chilometri dal vulcano (Plin., I. c.). Per contro l'eiezione della lava fu di poco momento e, se lava emerse dal cratere, essa non raggiunse le regioni abitate: noi nulla almeno leggiamo di correnti di lava e la nozione popolare che Ercolano fu invasa e rimase sepolta dalla lava e certamente un errore, come vedremo in seguito nella descrizione di quella città.
   Una calamità cosi grande ed inaspettata eccitò naturalmente la massima sensazione e così i poeti come i prosatori romani per oltre un secolo dopo l'eruzione abbondano di allusioni ad essa. Tacito {Ann., iv, 67) parla del golfo di Napoli come di un pulcherrimm sinus, ante quam Vesuvius, mons ardescens, facicni loci verteret (Bellissimo seno prima che il Vesuvio, un monte ardente, mutasse la faccia del luogo). Marziale, dopo descritta la bellezza della scena quando la montagna e le sue adiacenze eran vestite di vigneti, soggiunge: Cuncta jaccnt flammis el tristi mersa favilla (Giace qui tutto dalle fiamme adusto). E Stazio descrive il Vesuvio come emulo dell'Etna: /Emula Trinacris volvens incendia flammis.
   Scorse un lungo intervallo prima che scoppiasse un'eruzione consimile. E però probabile che il Vesuvio continuasse per qualche tempo almeno, dopo questa prima eruzione storica, a dar segni di attività, emettendo fumo e vapori solfurei dal cratere ed a ciò allude probabilmente Stazio (Silv., XIV, 485) quando parla della sua vetta minacciante distruzione : Necdum lethale miliari cessai apex.
   Ma la successiva eruzione registrata, e probabilmente la seconda per importanza, occorse nel 203 dell'éra nostra ed è rammentata da Dione Cassio (lxxvi, 2). E quella probabilmente a cui allude Galeno {De melh., v, 12) e par certo dalla descrizione fatta da Dione Cassio dello stato della montagna, quando scrisse sotto Alessandro Severo, che la era allora in uno stato di attività occasionale, ma irregolare rassomigliante a quello de' tempi nostri.
   L'altra unica eruzione che trovasi mentovata sotto l'Impero romano avvenne nel 472 sotto il regno di Antonio Flavio imperatore di Occidente (Marcellin., Chron. ad ami.). Una quarta che seguì nel regno di Teodorico re dei Goti (512) è rammentata da Cassiodoro e da Procopio che ne descrivono con minuti particolari i fenomeni. Par certo che queste ultime eruzioni furono accompagnate da scariche di correnti di lava le quali cagionarono gravi danni (Cassiod., Ejì., iv, 50; Procop., B. C., lì, 4; iv, 35).
   Nel medioevo si può dire che le eruzioni del Vesuvio par fossero assai più rare e separate da maggior spazio di tempo di quel che si fossero nei due secoli precedenti.
   2. Eruzioni moderne. — Si può incominciare da quelle del 685, del 993, del 1036, in cui la lava vuoisi giungesse sino al mare, del 1049, del 1139, del 1306 e del 1500, quest'ultima leggiera ma che lasciò però un cratere di 8 chilometri di circuito e profondo 1000 passi.
   Seguì un lungo intervallo di 131 anni durante i quali il Vesuvio si vesti di una vegetazione. Narrano infatti Salimbeni e De Rubeis ch'essi, nella loro ascensione nel 1619, trovarono l'interno del cratere coperto di quercie, di roveri, di frassini e altri alberi forestali. Da Ottajano si poteva scendere nel cratere profondo 037 metri e ili un diametro di 1578 metri. La montagna era coltivata da ogni parte sin presso al cono. La Pedamenlina, o bassa crina nel fianco a sud, e gli Atrii servivan di pascoli.
   II 16 dicembre del 1631, poco prima del sorgere del sole, incominciò una nuova tremenda eruzione che squarciò con orribil frastuono il lato sud della montagna alcunché sopra l'Atrio del Cavallo. Per due giorni il cratere vomitò pietre infocate, colonne di fumo e nembi di cenere accompagnati da lampi. Pioggie di arena e di cenere giunsero, a traverso la Basilicata, sino a Taranto, e in vicinanza del Vesuvio la cenere era alta 6 metri. A Napoli il sole fu abbuiato di pieno giorno e con la cenere si diffuse in ogni dove un odore molesto di acido cloridrico. Le pietre infuocato distrussero cadendo ed incendiarono ogni cosa a Nola, Palma, Lauro, Ottajano e altre città della pianura orientale in vicinanza del Vesuvio. Oltre a ciò tremuoti incessanti anche a Napoli e più oltre,