Bologna
101
il legittimo acquisto; che gli si darebbe la facoltà di portarsi via il danaro e gli averi mobili e di viversene quietamente colla sua famiglia nel ducato di Milano,
Appena seppero il Bentivoglio fuggito, i Bolognesi mandarono ambasciatori al papa per supplicarlo di proscioglierli dalle pene ecclesiastiche e di non lasciare entrare in città l'esercito francese. Giulio II, che non aveva certo l'intenzione di far entrare in Bologna quei pericolosi alleati, temendo insieme alla licenza dei soldati l'ambizione e la malafede dei capi, che avrebbero potuto esporre diritti sulla conquista, consigliò i Bolognesi di calare le paratoie di ferro chiudenti il canale del Reno a piedi delle mura in modo da allagare il campo francese, steso sulle praterie che sono fra porta San Felice e porta Saragozza. Così fu fatto e mentre i Francesi già reclamavano ad alte grida il saccheggio della ricca e prosperosa città, sorpresi da quella improvvisa inondazione alla quale non potevano opporre riparo, dovettero confusamente togliere il campo e ritirarsi al ponte del Reno, lasciando nella mota parte del loro bagaglio e delle artiglierie. Giulio IT, volendo poi indurre il Cha.umont ad andarsene tranquillamente, gli regalò 8000 ducati; altri 10.000 ne fece distribuire all'esercito francese e promise al fratello dello stesso Ghamnont, vescovo d'Alby, il cappello cardinalizio.
Il giorno 11 novembre, festa di San Martino, Giulio II fece il suo ingresso trionfale in Bologna; confermò alla città le franchigie ed il reggimento repubblicano, ina ne mutò la costituzione.
Fino allora Bologna erasi retta con una Signoria o Consiglio di sedici magistrati. Giulio II escluse tre dei signori. Giovanni Bentivoglio e due dei più zelanti suoi partigiani, ed incorporò gli altri tredici in un nuovo Collegio o Senato, composto di quaranta senatori, al quale affidò tutta l'autorità, salvo la suprema tutela del cardinale legato, rappresentante l'autorità del papa.
Da quel tempo lino ai nostri giorni, cioè all'avvento del Regno d'Italia, l'oligarchia dei Quaranta amministrò Bologna e la sua provincia con talune prerogative che ne ricordavano l'antica libertà ed indipendenza. Trovandosi i Quaranta sempre o quasi sempre in contrasto colla Corte di Roma, presso alla quale tenevano un ambasciatore, erano a forza e a dispetto dell'angusto spirito della oligarchia i veri rappresentanti del popolo e costanti propugnatori dei suoi privilegi. Con ciò vennero a capo di fare rifiorire nella loro città le arti, le industrie, gli utili traffici e gli studi, sbanditi o quasi dagli altri Stati della Chiesa. Però, da questo momento, la storia di Bologna cessa d'essere autonoma e s'incorpora politicamente in quella dello Stato pontificio, dal quale — salvo il periodo rivoluzionario, tra la fine del secolo scorso ed il principio del nostro — non iscosse più che per una sola volta, e per brevissimo tempo, il giogo.
Ad onta della fuga dei suoi titolari, il partito bentivogliesco, costituito da tutti gli interessi che si collegano anche alle più sozze tirannidi, tentò, sul principio del 1507, una congiura per rimettere lo Stato in potere degli antichi signori. Il legato pontificio Antonio Ferrerò da Savona la mandò a vuoto imperversando colle proscrizioni, coi bandi, colle taglie, coi supplizi, a cui il papa aggiunse anche la minaccia dell'interdetto. Ciò nondimeno Annibale ed Ermes, figliuoli di Giovanni, istigati e sovvenuti dalla madre, si avanzano con buon nerbo di milizie qua e là racimolate fra gli avventurieri che infestavano allora l'Italia, ed il 1° maggio si presentano alle porte della città. Aiutati dal cardinale Ippolito d'Este i Bolognesi li assalgono vigorosamente e due giorni dopo li avevano già cacciati dal loro territorio. Nel frattempo, nell'interno della città, avveniva la feroce distruzione del palazzo del Bentivoglio, della quale si è già più sopra discorso (vedi pag. 190). La notizia di quella catastrofe si sparse per tutta Italia e fu l'epilogo del dramma bentivogliesco. Giovanni, vecchio e stanco, scacciato dalla patria, abbandonato dagli amici e dalla famiglia, usciva allora dal castello di Milano, ov'era stato rinchiuso sotto l'imputazione di complicità nella congiura dei
25 — C-a flD!ti8-ìas voi. Ili, parte 3\