Stai consultando: 'La Patria. Geografia dell'Italia Provincia di Milano', Gustavo Strafforello

   

Pagina (174/548)       Pagina_Precedente Pagina_Successiva Indice Copertina      Pagina


Pagina (174/548)       Pagina_Precedente Pagina_Successiva Indice Copertina




La Patria. Geografia dell'Italia
Provincia di Milano
Gustavo Strafforello
Unione Tipografica Editrice Torino, 1894, pagine 547

Digitalizzazione OCR e Pubblicazione
a cura di Federico Adamoli

Aderisci al progetto!

   
[Home Page]




[ Testo della pagina elaborato con OCR ]

   Milano
   421
   in bocca ; derivato, a quanto sembra, dalle gesta di nn antenato che, nelle Crociate, uccise un saraceno ìli smisurata grandezza, il quale per cimiero dell'elmo portava appunto un drago anguiforme, divorante un fanciullo.
   La signoria viscontea era così ben fondata: ed alla morte di Matteo Magno (1322), come lo dissero gli apologisti cortigiani del tempo, poteva ritenersi assicurata. Ma la pochezza ed i vizi di Galeazzo suo tiglio e successore furono ad un punto ili guastare ogni cosa; fortunatamente per lui, che sopravvenne Lodovico il Bavaro ad aiutarlo ed a sconfiggere seco lui a Vaprio gli alleati o Crociati, come allora si erano detti, che da ogni parte di Lombardia gli si erano voltati contro. Migliore e più prudente si mostrò Azzone suo figlio, nominato vicario imperiale (1330), vero ristoratore della fortuna di sua famiglia; quegli che al tcrraggio circondante Milano dal tempo della Lega, sostituì una cinta di mura. Fu contrastato nel dominio dal cugino Lodrisio, che gli suscitò contro masnadieri e fuorusciti ; ina quel pretendente venne sconfitto a Parabiago. Ad Azzone, morto giovane (17 agosto 1339), succedette per voto del Consiglio generale, ormai fabbricato a benefizio e volontà dei Visconti, lo zio Luchino; uomo energico, duro e niente scrupoloso. Liberò lo Stato dai masnadieri, che in compagnie armate cominciavano ad infestarlo, fece condurre al supplizio quanti gli parvero poco ossequenti alla sua volontà, ed abbassò più che potè i nobili, nell'ambizione ed irrequietudine dei quali egli vedeva i maggiori pericoli per sè e per i suoi. Morì di veleno (1349) e gli successe suo fratello Giovanili, arcivescovo: che i cronisti dipingono come uomo allegro, piacevole, amante degli studi e della buona vita. E sotto il reggimento di Giovanni, che Petrarca venne in Milano e vi trovò le più onorevoli accoglienze alla Corte e fuori. Fu cotesto Giovanili, arcivescovo e signore di Milano, che istituì una cattedra dantesca, tenuta da sei commentatori del divino poema, onde il sapere e le verità in esso contenute fossero diffuse fra gli studiosi. Con questo non trascurava la politica d'arrotondamento ch'era programma della casa, e sotto di luì lo Stato milanese comprese diciotto grandi città, tra le quali Bologna, tolta al papa, e Genova, che, uscita stremata dalla guerra eli Chioggia e dalle discordie interne, si era volta a lui per aiuti, e Lucca, alla quale le anni viscontee avevano prestato aiuti contro Pisa e Firenze.
   Gli successero nel 1351- i suoi nipoti Bernabò e Galeazzo, che si divisero lo Stato serbando in comune la signoria di Milano, cosa invero singolare, esca a futuri odii ed a tragedie di famiglia. Tanto Bernabò che Caleazzo furono astuti e feroci politici: miranti dapprima ad estendere il comune dominio, poi a vedere chi dei due avrebbe soverchiato l'altro. Bernabò condiva le sue crudeltà di certi tratti burleschi che non spiacevano alle masse, ormai inclini al servaggio; così quella di far mangiare ai legati del papa, che gliela portavano, la bolla di scomunica in pergamena coi suggelli di cera, a scanso di essere gettati nel Lambro vicino.
   È Bernabò che primo introdusse in Milano e mantenne in una sua casa presso San Giovanni in Conca — detta dal popolo Cà dei Cani — quelle mode di mastini ferocissimi, delle quali andava sempre attorniato e che facilmente erano lanciati su veri o pretesi suoi nemici.
   Galeazzo invece era più cupo e feroce: egli fu l'inventore di quella famosa quaresima, colla quale, alternando con quaranta giorni di torture a quaranta giorni di quiete, prolungava all'infinito lo strazio di quei disgraziati che avevano la mala sorte di capitargli fra le unghie, sospetti di con^Lre e di ribellioni contro di lui. Galeazzo aveva residenza ni Pavia, Bernabò a Milano. Al figlio e successore di costui, Gian Galeazzo, che aveva saputo mascherare la propria ambizione colle apparenze di sempliciotto e di fervente visitatore di santuari, il riunire, con una gherminella giuo-cata allo zio Bernabò — cui mandò a morir di veleno nel castello di Trezzo — iu una sol mano tutto il dominio visconteo, non solo, ma d'allargarlo ancora e faine il nucleo