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Il Vagabondo delle Stelle

Jack London
Bietti Milano, 1946, pagine 311

Digitalizzazione OCR e Pubblicazione
a cura di Federico Adamoli

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   172-4
   JACK LONDON
   un'alba tempestosa, sopra un mare infuriato, le cui onde si alzavano come montagne. Eravamo d'inverno. Tutto, salvo il mare, era silenzioso intorno a noi e, attraverso un'opaca tormenta di neve, potevamo scoprire, a tratti, una costa inospitale. Se pur si può chiamare costa un insieme di - scogli spumosi, d'innumerevoli rocce sinistre, di là dalle quali apparivàno confusamente delle spiagge sassose, dei promontori che avanzavano i loro speroni nel mare. Dietro questo temibile riparo, si profilava una catena di montagne, coperte di neve.
   Ignoravamo che terra fosse quella verso la quale andavamo, e se altri vi fossero mai sbarcati. Appena una vaga linea la indicava nella nostra carta. E c'era da temere che i suoi abitanti, se ve n'erano, fossero altrettanto cattivi quanto il suo aspetto.
   La prua dello « Sparviero » urtò in pieno contro uno scoglio che sporgeva nell'acqua profonda, e il nostro albero di bompresso, dopo essersi un istante drizzato fino al cielo, si spezzò nettamente. L'albero di trinchetto si abbattè con terribile fragore e precipitò in acqua con tutti i suoi cordami.
   Inzuppato d'acqua e sbattuto sul ponte dalle ondate, io riuscii a raggiungere Giovanni Maartens, sul càssero. Altri uomini dell'equipaggio fecero come me, e come me si legarono solidamente con delle corde. Ci contammo. Eravamo diciotto: tutti gli altri erano scomparsi.
   Maartens, che ho sempre ammirato, nop aveva perso il suo sangue freddo. Mi toccò con la mano, poi alzò il dito verso ima cascata d'acqua salata, che scendeva da un'anfrattuosità della costa rocciosa.
   Compresi che cosa voleva dire. Desiderava sapere se ero capace di scalare l'albero maestro, ancora in piedi, e saltare di là sulla minuscola piattaforma che a venti piedi al disopra del càssero domi, nava quell'anfratiuosità, nella roccia a picco.