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Il Vagabondo delle Stelle

Jack London
Bietti Milano, 1946, pagine 311

Digitalizzazione OCR e Pubblicazione
a cura di Federico Adamoli

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   il vagabondo delle stelle
   115
   debolezza. Galoppavano come potevano, scheletri avvolti in una pelle rognosa, e riuscirono ad avanzare il resto della carovana. Ma questa furia non duṛ molto. Non poterono sostenere la loro corsa e si rimisero a, strascicarsi, penosamente, ma con impazienza, senza più cercare i ciuffi d'erba secca, nè fermarsi.
   — Che succede? — domanḍ mia madre, dall'interno del carro.
   — L'acqua è vicina, — rispose mio padre. — Dobbiamo arrivare a Nephi.
   — Sia lodato Iddio! Forse là ci venderanno qualcosa da mangiare.
   Era proprio Nephi. Vi entrammo nella stessa nube di polvere, rossa come sangue, sotto il sole rosso, e fra gli stridori ed i cigoĺi, gli urti e gli sbalzi dei nostri grandi carri.
   Una dozzina di abitazioni, semplici capanne sparse qua e là, costituivano questo villaggio. Il paesaggio era simile a quello che avevamo attraversato. Nessun albero. Nient'altro che ciuffi rattrappiti, in un deserto di sabbia e di ciottoli. Ma si vedevano, in qualche punto, dei campi coltivati, in parte chiusi da siepi.
   Nessuna corrente d'acqua, nel letto asciutto del torrente. Tuttavia, questo letto mostrava qualche segno di umidità. Un po' d'acqua vi filtrava in certi punti, in buche ch'erano state scavate, e dove i buoi staccati ed i cavalli da sella zampettavano con delizia, sprofondandovi il muso e la testa, fino agli occhi. Dei piccoli salici magrolini spuntavano presso queste pozze d'acqua.
   L'inquietudine aveva condotto mia madre, dal fondo del carro fino a noi. Guarḍ al disopra delle nostre spalle. Mio padre le mostṛ col dito un grande fabbricato, vicino alla riva, e le disse :
   — Dev'essere il molino di Bill Black.