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Il Vagabondo delle Stelle

Jack London
Bietti Milano, 1946, pagine 311

Digitalizzazione OCR e Pubblicazione
a cura di Federico Adamoli

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   JACK LONDON
   Quando veniva l'inverno, tutti quei mucchi secchi, tutti quegli scheletri scarniti dell'antica vegetazione erano bruciati. E in primavera, quando un'erba folta e verde era spuntata sul suolo rinnovato, io arrivavo colle mie mandre di bestiame. Dopo il loro passaggio, la terra era lavorata, per produrre, l'anno dopo, delle splendide mèssi. Di collina in collina, di pendio in pendìo, dì versante in versante, proseguiva, sempre più lontana, l'opera di colonizzazione.
   Oh! quei sogni nella camicia di forza, in cui ritrovavo sempre le mie belle raccolte alternate, di frumento, d'orzo, di trifoglio, mature per la stagione, mentre le mie capre andavano sempre, brucando, verso l'orizzonte!
   Quando non dormivo, mi sforzavo, come m'aveva consigliato Red, di fissare la mia idea sopra un uomo od un pensiero.
   Le mie idee convergevano immancabilmente verso Cecil Winwood, verso il falsario-poeta che, con leggerezza di cuore, aveva fatto piombare sopra di me tutta quella calamità, e che, mentre io agonizzavo, passeggiava liberamente al sole. E il mio cervello, da allora, non lo lasciava più.
   Non posso dire che lo odiassi. No. La parola sarebbe troppo mite, inadatta. Non esiste un'espressione capace di tradurre quel che provavo per lui. Quello che posso dire soltanto, si è che un desiderio folle di vendetta mi preoccupava sempre, è mi rodeva il cuore con una straordinaria sofferenza.
   Per ore intere, macchinavo, pensando a lui, dei piani e delle nuove varietà di tortura. Quella cbe più mi piaceva era la vecchia farsa che consiste nel legare al corpo di un uomo, ben applicata contro, una gavetta di ferro nella quale si è prima messo un topo. 11 topo non ha altra risorsa che d'aprirsi lentamente un'uscita attraverso il corpo dell'uomo.