il vagabondo delle stelle
fossero, improvvisamente, diventati impotenti ad assorbire la quantità d'aria necessaria per permettermi di respirare. Questa sensazione di soffocamento che provavo era terribile. Ad ogni battito del cuore, mi sembrava che questo fosse per scoppiare e, ad ogni aspirazione, che i miei polmoni stessero per rompersi.
In capo a mezz'ora (non avevo ancora l'esperienza della camicia di forza, e questa mezz'ora fu calcolata da me come fosse stata lunga parecchie ore), mi misi a gridare, a lanciare urli di sgomento, a ruggire, in una vera demenza di agonizzante. Il dolore, dallo stato sordo, era passalo a quello acuto. Mi credevo in preda ad una pleuresia artificiale, e ricevevo nel cuore una serie di colpi di pugnale.
Morire di colpo non è niente. Ma questa morte lenta e raffinata era spaventosa. Come una belva, presa in una trappola, io provavo delle frenesie di spavento e scoppiavo, dopo brevi pause di silenzio, in nuovi urli e ruggiti. Poi mi persuadevo che questi esercizi vocali non facevano che aggravare i colpi di pugnale al cuore e consumare ancor più l'aria rarefatta dei miei polmoni.
Tacqui e m'imposi di restare tranquillo. Vi riuscii, a forza di volontà, per un tempo che mi parve eterno e che certamente non superò un quarto d'ora. Poi fui colto da una vertigine, il mio cuore si mise a battere come se volesse fare scoppiare la tela e, semi-asfissiato, persi ogni controllo di me. Grida ed urli ricominoiarono più forti, e chiamai soccorso.
Nel bel bezzo di questa crisi, udii una voce che usciva dalla cella vicina. Essa filtrava attraverso lo spessore dei muri mi giungeva appena.
— Sta zitto! — diceva, — Mi dai noia, hai capito?
— Muoio!.,. — gridai.
-—Non è niente... Lascia perdere! — fu la risposta,