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JACK LONDON
E Oppenheimer:
— Benvenuto in nostra compagnia!
Erano curiosi di sapere chi fossi, da quanto tempo fossi in cella, e perchè. Ma io elusi queste domande, per chieder loro d'insegnarmi dapprima la chiave che permetteva di modificare a loro piacimento il codice alfabetico. Quand'ebbi ben capito, cominciammo a discorrere.
Fu un gran giorno, nella nostra esistenza. I due condannati erano ormai tre. Come mi dissero poi, essi non si confidarono a me che dopo un certo tempo, in cui fui messo alla prova. Temevano che fossi una spia od un agente provocatore, messo là per farli cantare. Avevano già fatto questo tiro a Oppenheimer, ed egli aveva pagato cara la fiducia riposta nell'emissario del direttore Atherton.
Fui molto sorpreso, e piacevolmente lusingato, di saper che i miei due compagni di miseria non ignoravano il mio nome, e che la mia reputazione d'incorreggibile era giunta fino a loro. Fino in quella tomba vivente, che Oppenheimer occupava da dieci anni, la mia gloria — o la mia modesta notorietà, se preferite, — era penetrata!
Avevo molto da raccontare, dei fatti diversi della prigione, del complotto per l'evasione dei quaranta condannati, della ricerca della dinamite, e delle scellerate macchinazioni di Cecil Winwood. Tutto ciò riusciva nuovo per loro. Le notizie, mi dicevano, penetravano talvolta, goccia a goccia, nelle loro celle, per mezzo di qualche guardiano. Ma, da due mesi, non avevano più saputo niente. L'attuale squadra in servizio era severa e cattiva in modo speciale.
Parecchie volte, in quel giorno, riprendemmo la nostra conversazione colle dita, non senza molte maledizioni e minacce dei guardiani di ronda. Ma la cosa era più forte di noi; non potevamo tacere.