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La Divina Commedia
Paradiso
Biblioteca del Popolo
Sonzogno Milano, pagine 62

Digitalizzazione OCR e Pubblicazione
a cura di Federico Adamoli

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   I-A DIVINA COMMEDIA
   alle anime e siamo paghi in Dio di questa nostra insufficienza, tanto più cauti dovete essere nel giudizio voi mortali. » E intanto che l'aquila parla e risolve il dubbio del poeta, le due luci di Traiano e di Rifeo accompagnano le parole col loro scintillio.
   CANTO XXI.
   Dante rivolge gli occhi a Beatrice, la quale più non ride poiché il poeta non resisterebbe a tanto fulgore. Essa gli annunzia che sono ormai giunti al settimo cielo, o cielo di Saturno, e lo invita a fissar gli occhi alla figura del luccnte pianeta e a seguire colla mente gli occhi. Dante ubbidisce divotamente alla scorta celeste. La figura che gli appare per contro al lucido cielo è una scala d'oro, tanto alta che l'occhio non arriva a vederne la cima, salita e ridiscesa da infiniti angeli e beati, che roteano e sfavillano. Uno degli spiriti della scala celeste si appressa e si fa più fulgido, si che Dante vede in lui il desiderio di parlare. Senonchè il poeta non rompe il silenzio senza un cenno di Beatrice; ottenutolo, così egli parla alla luce: « Sebbene il mio merito non mi conceda alcun diritto di avere da te una risposta, pure per amore di Beatrice, spiegami per qual ragione tu ti sei accostata a me, e in virtù di qual legge in questo ciclo tace la dolce sinfonia di Paradiso. » « Qui non si canta — risponde la luce — per la stessa ragione per cui Beatrice non ha riso, per non vincere cioè i tuoi sensi mortali. Qui sono discesa più presto delle altre luci non perchè ferva in me maggior grado d'amore; ma la Carità divina induce ciascuna di noi a tradurre in atto liberamente l'ufficio a lei dato in sorte. »