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La Divina Commedia
Paradiso
Biblioteca del Popolo
Sonzogno Milano, pagine 62

Digitalizzazione OCR e Pubblicazione
a cura di Federico Adamoli

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   38 I-A DIVINA COMMEDIA
   zio e dei fratello che vituperano due corone, e tutti i demeriti del re di Portogallo, del re di Norvegia, del principe di Rascia falsificatore del conio veneziano, e tutti i biasimi del re d'Ungheria e di quei sovrani francesi che estendono il dominio su Navarra preparandole gravi sciagure di cui si ha caparra nei lamenti di Nicosia e Famagosta per l'atroce dominio del Lu-signano. »
   CANTO XX_
   Appena che l'aquila nel benedetto rostro si tace, tutte le luci, fatte più fulgide, intuonano ineffabili canti divini ; e il loro scintillìo ispirato dalla carità, va sempre crescendo, come quello delle stelle, che dopo il cader del sole, ravvivano il cielo. Dante, quietato il canto delle luci, ode come un sommesso mormorar di fiume; poi, come suono al collo della cetra prende la sua forma, così il sommesso mormorio dell'aquila, salendo per il collo si fa voce^ed esce dal becco in forma di parole. « Guardami nell'occhio — dice —; le luci che sono nella mia pupilla scintillante sono i più nobili spiriti, che formano la mia figura. Quello che traluce nel punto di mezzo è lo spinto di David, che qui ben conosce l'eletto merito del suo canto dei salmi. Dei cinque che mi attorniano, quello più vicino al becco è Traiano, che, per essere stato più secoli nell'Inferno, può fare il confronto tra questa dolce vita e la pena di chi non segue Cristo. Gli tien dietro lo spirito di Ezechia, che indugiò la morte per aver agio a pentirsi, e che ora conosce qui l'immutabilità dell'Eterno Giudizio, ad onta Dio possa differire al domani