II. PARADISO 35
incerto, si volge a Beatrice e la vede fatta più bella, più gioiosa, più fulgida ; e da questa visione s'accorge ch'egli, girando insieme coi cieli, ha descritto un arco maggiore ; e nota nella sua vista il tramutarsi dal rutilante colore di Marte al candido luccicare del cielo di Giove. In questo cielo le sante creature rappresentano a gruppi agli occhi estatici del poeta le figure di lettere italiche; esse trasvolano cantando attraverso alle luci, formando or D, or /, or L. Dapprima esse si muovono secondo la nota del canto; poi, trasfigurandosi in una di queste lettere si arrestano por un po' silenziose. Dante invoca la Musa possente, per esprimere adeguatamente quelle figure. Esse si mostrano in trentacinque lettere; e Dante nota prima le singole lettere, poi ìe-sillabe, poi le parole.
Primi di tutto il dipinto furono verbo e nome: « Di-ligite justitiam » ; ultimi furono a qui iudicatis ter-ram ». Poi restano ordinate nellW del quinto vocabolo, sì che Giove pare argento fregiato d'oro. Altre luci scendono cantando al colmo dell'/I/; poi in un denso sfavillìo, ne risalgono più di mille; e in fine il poeta discopre ch'esse hanno formato la testa e il collo di un'aquila: divina rappresentazione! Poco ci vuole perchè le altre anime ingigliate ali'A/, compiano la forma dell'aquila. L'aspetto del celeste uccello risveglia in Dante l'idea della monarchia universale e il suo sogno radioso di Giustizia » Io prego — dice — la Mente divina che dà inizio al tuo moto, o cielo di Giove, di guardare alla corrotta curia di Roma e di adirarsi un'altra volta contro gli impuri mercanti del tempio. E voi, o Beati, pregate per coloro che in terra si sviano dietro al malo esempio. Ora non si fa più prncrra colle