Del vitto e delle cene di Giuseppe Averani

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      degli antipasti e delle seconde mense 59 Damasco, dove Dario avea raccolto V apparecchio di quella guerra fatale, scrìve ad Alessandro d'avervi trovato trecentoventinove cantataci, quarantasei tessitori di corone, duecentosettantasette cuochi, ventinove lavoratori di vasi da cucina, tredici manipolatori di latti e quaranta d' unguenti e diciassette di bevande e settanta bottiglieri : tutte persone destinate all' apprestamento della tavola del re. Da questo catalogo agevolmente potete apprendere quanti egli doveva averne ; considerando che alcuni altri all'esercito n'avrà seco condotti e molti più in Susa ed in Babilonia, sede dell'imperio, ne doveva aver lasciati Io però tra qnesti non trovo specificatamente annoverati i pasticcieri e gli altri manipolatori delle cose dolci; ma stimo che si comprendano nel numero de' dugentosettantasette cuochi, usando la parola generale o^eicù;: cioè a dire vivandieri o lavoratori di camangiari.
      E qui non voglio tralasciare d1 avvertire che gli antichi, per far le confezioni e 1' altre cose dolci, erano costretti, non avendo 1' uso dello zucchero, a servirsi del miele, come avrete osservato dal distico di Marziale poco innanzi recitatovi* Varrone scrive mei ad principia convicii et in secundam memam administraiur. Nel principio del convito si dava il mele per temperare il vino, e farne, come a grado fosse de* convitati, il mulso, nel fine per mangiarlo. Ma ciò si costumava nelle mense temperate e plebee, e secondo l'antica parsimonia apparecchiate ; come conghietturar si puote, considerando quello che scrive Clemente Alessandrino, il quale biasimando lo ghiottornia e la sontuosità delle mense e l'astinenza e la frugalità saggiamente lodando, awer-tisce, che non per tanto quegli che vivono con temperata sobrietade astener si debbono da porre in tavola e mangiare i favi del mele.
      Ma per dire alcuna cosa dello zucchero, convien sapere, che gli antichi del nostro zucchero non avevano


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Del vitto e delle cene degli antichi
di Giuseppe Averani
G. Daelli e comp. Editori Milano
1863 pagine 169

   

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