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Per la biografia di Giovanni Boccaccio

Francesco Torraca
Società Editrice Dante Alighieri, 1912, pagine 432

Digitalizzazione OCR e Pubblicazione
a cura di Federico Adamoli

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   -ed ancoraché, per li celebrati matrimonii. del suo coro degna non fossi di seguitarla, giammai non lasciai, nè da lei mi fu donato congedo, come a Calisto, con tutto che una volta gravante come quella apparissi nelle sue fonti, con maschia progenie poi dal peso deliberandomi. Non mi era adunque altra deità nota del cielo, quando, non ha ancora gran tempo, visitando io gli templi della nostra città, e questo massimamente, dove oggi i solenni sacrifici abbiamo celebrati, ornata come sono al presente, e forse più vaga, ne' suoi luoghi cantando un giovane graziosi versi a' miei orecchi, m'apparve la santa Venere, de' suoi cieli discendente in forma, quale al riverente Anchise, fuggente gli sconci incendii de' suoi tetti nel tempo notturno, infra le tenebre, si mostrò la chiara luce dell'avolo suo. alla quale il tiepido cuore s'aperse nel primo sguardo: e quella con le sue fiamme entratavi subito, vi rimase, me di costumi, d'abito e di modi in parte cambiando. E tanto fu di Diana ver me la benevolenza ferma, che già per questo non mi negò la sua compagnia, ma parve che io nella sua grazia crescessi. Duranti adunque i nuovi fuochi della santa Dea nel petto mio, avvenne un giorno che, per questi prati soletta passando con l'arco, con le mie saette, mi vennero alzati gli occhi, ed in aere, non senza molta ammirazione, dinanzi ad esse vidi uno ardente carro, tirato da due dragoni, taie a riguardare, qual forse quello di Medea, fuggente Teseo, fu potuto vedere. Nel quale una giovane donna, nello aspetto altiera. e di fuoco così come il carro lucente, armata di bellissime armi, con uno cappello d'acciaio, con alta cresta, con scudo, vidi reggente queito e così veloce corrente per l'aere, quali le saette turche, pinte da forte nervo, sogliono senza alcuna comparazione volare: allato alla quale uno spirito bellissimo del suo fuoco accendentesi tutto, vidi sedere; e con lei più volte tentata l'entrata degli alti cieli, non conceduta loro, per l'aria vagabondi in voce altiera facendola risonare, andavano questi versi cantando:
   Quantunque il capo oppresso di Tifeo, Etna, mostrante le sue ire accese, Sbrigasse, sè giugnendo al Lilibeo;
   E Pachino, e Peloro le distese Braccia, ed Appennin le gambe, tale Che ei sorgesse a far le sue difese;