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non intese con ciò « far grave carico al Boccaccio nè accusarlo d'indegno plagio: queste ed altre siffatte derivazioni trovano la spiegazione e giustificazione loro nel concetto che allora si aveva, ben diverso da quello che ne abbiamo noi, non dirò della proprietà letteraria, ma dei diritti di ogni scrittore rispetto all'opera de' suoi predecessori ». Sono interamente della sua opinione; ma sempre più mi confermo nell'idea che la lettera fosse dal Boccaccio compilata per suo esercizio, non per essere inviata; soprattutto, non per essere inviata al Petrarca. Possibile che mostrasse, a parole, di aver un altissimo, anzi esagerato concetto della dottrina del Mavortis miles, e, nel fatto, gli facesse l'offesa di ritenerlo incapace d'accorgersi che non tutta la lettera era farina del suo sacco? 0 vorremo attribuirgli la furberia di aver pensato che, non solo la lettera di Dante a Moroello, ma anche il libro di Apuleio fosse ignoto al Petrarca; e che, perciò, egli vi poteva attingere a piene mani, senza timore di esser trattato come la cornacchia della favola? Non abbiamo il diritto di denigrarlo così. Del resto, egli stesso, deponendo la penna, dichiara: «Scio me stilo desultorio nimia inepte ac exotica blacterando narrasse, alterius summens officium, cum meum didare non sit ». Egli stesso giudica la lettera per quello, che è, una mera esercitazione nell'ars didandi, e un centone (l).
(') Il Boccaccio non una, ma tre volte confessa la sua ignoranza, su per giù con le stesse parole: «Cum me, vester subditns, ignorantiae tenebria involutus, rndis ens inliers indigostnque moles... Cimi me mi-serum, rudem, inermem, inertem, crudiim pnriter et informem cougno-scam .. . Spero meam inertiam (inertem ì) jndigestamque «jolpro et igao