Giulio Adamoli
Da San Martino a Mentana

Capitolo Nono
Mentana
(1867)




       In seguito agl'insuccessi del 22 ottobre, e ai truci fatti, che li seguirono, perduta ogni speranza d'introdurre in città le armi e ogni illusione sul passaggio del confine da parte dell'esercito, non era più possibile pensare a un tentativo di rivoluzione in Roma. Smessone per ciò il pensiero, Cucchi, che non si smarriva nè si disanimava per nulla, rivolse ogni suo studio ed ogni opera sua ad assecondare le mosse de' volontari, che si aggiravano per l'Agro romano.
       Le probabilità di riescita di questo nuovo piano si erano grandemente accresciute, dacchè Garibaldi, deludendo la sorveglianza delle navi da guerra, e riapparendo a un tratto sul campo dell'azione, aveva ripreso il comando di tutti i corpi armati, e impresso loro un vigoroso impulso. A quell'annunzio anche in Roma si erano risollevati gli spiriti dei patrioti, depressi invece gli animi del governo e delle truppe pontificie. Cucchi aveva potuto, con raddoppiata energia, preparare gli elementi atti a coadiuvare un assalto eventuale alle mura, e stabilire corrispondenza regolare con Garibaldi, a fine di mantenersi reciprocamente informati. E io persisto tuttora a credere, che senza l'intervento dei francesi, non ostante le dimostrazioni di sicurezza, l'apparato guerresco di trincee e di batterie, la mostra di numerose pattuglie, che sempre percorrevano le vie, e le misure di rigore contro i cittadini, che dovevano perfino rincasare all'avemaria, la insurrezione, capitanata da Garibaldi, avrebbe trionfato, e il potere temporale sarebbe cascato come pera matura. E mi conferma in questa opinione il ricordo dello spettacolo, che offrirono a Guerzoni e a me le truppe papaline, uscite di città il mattino del 26 per attaccare i garibaldini a Monterotondo: le quali rientravano la sera per porta Pia senza ordini nè comando, in parte senza fucili, malconce, demoralizzate, come se avessero subita una sconfitta, e il nemico fosse loro alla calcagna, mentre non avevano scambiato coi nostri che soli pochi colpi. Pranzammo quella sera con maggior appetito, e messici di buon umore, ci attardammo intorno alla mensa dell'albergo, divertendoci non poco per i commenti di una signora inglese, assai belloccia, che proclamava Garibaldi un galantuomo, a honest man, ma i Garibaldini, viceversa, tutti quanti fior di canaglia. Una opinione, cotesta, non affatto nuova, del resto, neppure nel nostro paese.
       Ma la voce dello sbarco dei francesi a Civitavecchia mutò la faccia delle cose, e distrusse negli animi nostri ogni fiducia di sicura riscossa. D'accordo con Cucchi, Guerzoni ed io decidemmo di raggiungere senza indugio Garibaldi, per informarlo della verità vera, e sfrondare, ove ne fosse il caso, le fallaci illusioni, ponendolo in grado di agire con perfetta conoscenza della situazione. Cucchi rimaneva per vedere con i proprii occhi i francesi, e mandare, sul conto loro e i loro intendimenti, ragguagli esatti a Garibaldi.
        E, di fatto, con la solita sua imperturbabilità, il 30 ottobre ei si recò, insieme con don Domenico, un prete amico, che gli serviva di egida, alla stazione ferroviaria, allora informe baraccone di legno, incontro a quel reggimento di linea e a quel battaglione di cacciatori comandati dal barone di Polhés, generale di brigata, che arrivarono per i primi in Roma, e ai quali anch’egli, nella folla, battè le mani e gridò evviva. Trascinò poi il suo Acate alla tavola rotonda dell’Albergo della Minerva, ove gli ufficiali francesi, riscaldati dai fumi del vino e delle vivande, non tardaron molto a far manifesta la volontà de’ loro capi di schiacciare immantinenti l’idra garibaldina.
       Il 1° novembre, per mezzo dei suoi fidati informatori, Cucchi ebbe copia di tutto il piano della campagna, che doveva essere intrapresa dagli alleati, e lo spedì al Generale, nelle cui mani pervenne la notte seguente, mediante il solito sistema delle pallottoline di carta velina, ravvolte nei foglietti di stagnola, e affidate a un buttero, che l’avrebbe inghiottite se sospettasse per caso di essere perquisito. Avendo così, fino all’estremo, coscenziosamente compiuta la sua missione, Cucchi abbandonò Roma, e per Civitavecchia, Livorno e Firenze, accorse da Garibaldi, che incontrò al suo ritorno da Mentana.

       Guerzoni ed io, il mattino del 29 ottobre, ci accomodammo in una vettura, mandataci all’albergo dai fratelli Sebasti, buoni patrioti, che tenevan servizio di carrozze in piazza Clementina: e disposti i plaids, i binoccoli, le guide, annunciato al signor Valenti (il quale, del resto, aveva subodorato l'esser nostro), che saremmo rientrati dopo una escursione ad Albano, ordinammo al cocchiere di frustare i cavalli, e via.
       Uscimmo per porta Maggiore, senza difficoltà, grazie al lione e al liocorno impressi in cima al passaporto, e pigliammo la via di Frascati, traverso quella campagna romana, di cui, anche con lo spirito preoccupato, non è possibile non ammirare la maestà insuperabile: quella campagna romana, che, secondo il detto del duca Onorato di Sermoneta, forma, insieme con il golfo di Napoli e i laghi lombardi, la triade più meravigliosamente originale di tutto il dolce paese d'Italia.
       Contornando quindi le falde di que' colli, che popolati di vigne e di uliveti, tanto degnamente inghirlandano la pianura, per una strada traversa raggiungemmo cascina Finocchio, ove la presenza di alcuni innocui gendarmi pontifici non ci produsse altro che una ingrata sorpresa passeggera. Al ponte Lupano, ai piedi di Tivoli, facemmo colazione; poi, passato Fornacci, smontammo di carrozza alla tenuta di Marco Simone, ivi accolti dal proprietario in persona, Felice Ferri, più tardi mio collega alla Camera, il quale, messici a cavallo di due mule, ci affidò a un suo buttero intelligentissimo, di nome Venanzio, che Guerzoni mi rammentava poi sovente.
       Facendoci camminare sino alle 11 di sera, Venanzio ci guidò, per Mentana e Monterotondo, a Castel Giubileo, ove fummo tosto introdotti da Garibaldi, che ascoltò attentamente il rapporto di Guerzoni; ci fece molte domande, lodò l'abnegazione del Cucchi, e finì col ritenere presso di sè, come segretario, il Guerzoni, impiegandolo subito a scriver proclami e ordini del giorno. Io mi confusi tra gli ufficiali del mio seguito, dei quali ricordo Paolo Fabrizi, oggi deputato al Parlamento per la Garfagnana, che spesso ancora mi ricorda di avermi accolto, allo scender di sella, con la offerta di una buona tazza di caffè; e, poco dopo, mi stesi a riposare sopra un giaciglio, mentre Stefano Canzio ci teneva desti con le sue interminabili chiacchiere in dialetto genovese, scoppiettanti di frizzi e di sarcasmi, che facevan ridere Alberto Mario sino alle lagrime.
       Rimasi addetto al quartier generale, disimpegnando però un servizio abbastanza libero, ed acconciandomi, la sera, or accanto al Missori, or presso la bella contessa, non dimentica della ospitalità avuta allo stato maggiore di Eber, ora finalmente insieme con mio padre, il quale pur questa volta non aveva saputo resistere alla tentazione di raggiungerci, ma che, in verità, poco tempo spendeva con me, essendo sempre sopraffatto dalle incombenze che volontariamente si assumeva. Appunto per correre incontro a mio padre, di cui a Monterotondo mi si segnalò l'arrivo, mancai di accompagnar Garibaldi nella ricognizione del giorno 30.
       Non fui sorpreso di trovare al campo due nuovi intransigenti, venuti da Milano il giorno innanzi, Bezzi e Bellisomi, perchè immaginavo che non avrebbero alla lunga rinunciato a seguire il loro antico ed amato generale. Li salutai per ciò, sorridendo, e rammentando loro i nostri discorsi del 14. Essi allora mi raccontarono, che anche Garibaldi li aveva accolti con un ironico: "ah, siete qui bruschini!” Alludendo a Brusco Onnis, redattore dell'Unità Italiana, che personificava a Milano le idee del Mazzini. Mi soggiunsero di essere in piena regola con la coscienza, perchè Mazzini stesso aveva diramate istruzioni ai correligionari, eccitandoli ad accorrere in massa sotto la bandiera di Garibaldi, sebbene inalberata nel nome di Vittorio Emanuele, e lasciando loro facoltà, una volta in Roma, di tentare ogni sforzo per far prevalere i principii repubblicani. E Bezzi mi confidò di aver letto a Garibaldi, per incarico del Mazzini, un brano di una sua lettera, in cui affermava: non esser vero, che si fosse opposto in Londra alla sottoscrizione aperta dal Ricciotti, a favore del movimento garibaldino; aver egli consigliato invece ai suoi amici di coadiuvare Garibaldi nella liberazione di Roma; mentire chi sosteneva il contrario. Questa lettera fu distrutta da Bezzi, quando egli cadde prigioniero de' papalini.
       Il 31 di ottobre fu una giornata disastrosa, però che giunse a noi la nuova dell'ingresso dei francesi in Roma. Garibaldi rifece la strada da Castel Giubileo a Monterotondo, e l'ordine della ritirata ingenerò nei volontari tanta sfiducia, e ne accrebbe siffattamente il malumore, che lo sfasciamento delle bande, già segreto e sottile, si avviò su larga scala. Gli sforzi dei buoni, e con le blandizie e con le minacce, per mantenere un po' di disciplina nelle file, incominciarono a perdere ogni efficacia.

       Il 1° di novembre Garibaldi trasportò il suo quartier generale da casa Frosi al castello feudale de' Piombino, di cui don Ignazio Buoncompagni, in mezzo all'ossequio di più diecine di guardiani, faceva gli onori con la stessa cavalleresca cortesia, con la quale ora, principe di Venosa, e senatore del Legno, accoglie nel suo palazzo di Roma il fiore dell'aristocrazia mondiale. Ciò, per altro, non gl'impedì di frenare a suo tempo, con la rivoltella alla mano, il vandalismo de' farabutti, che erano frammisti alle Bande.
       Egli, don Ignazio, aveva dapprima tentato di organizzare in Torino una compagnia di emigrati romani, con denari in parte forniti da Crispi; ma i prefetti di Torino e di Bologna gli trattennero quei volontari, che Rattazzi gli aveva permesso di arruolare. Allora se n'andò solo a Terni, si aggregò allo stato maggiore del duca Lante di Montefeltro, uno dei comandanti i corpi dell'Agro romano; e in questa guisa ei fece la campagna, si batté a Mentana, e ultimo, la sera del 3, uscì dall'avito suo castello di Monterotondo, dopo che tutti i garibaldini si erano avviati per Passo Correse.
       Singolarissima avventura, in quel periodo singolare, di questo giovane di ventidue anni, secondogenito del principe di Piombino; il quale, indossata la camicia rossa, va con Garibaldi alla conquista di Roma, confondendo, in un solo sentimento di poesia divina, l'amor della patria e l'amore della bellissima gentildonna, che egli doveva, come a guiderdone, impalmare poco dopo!
       Don Ignazio accompagnò, in cima al mastio del castello, Garibaldi, che al solito vi rimase lungamente, scrutando d'ognintorno il paese. Quanto a me, dinanzi a quel mirabile panorama della campagna romana, mi sentivo trasportare qualche anno addietro, allorché dalla cupola dei benedettini di Catania, nel 62, contemplavo nel magico sole del mezzogiorno, brulicare anche laggiù turbe non meno indisciplinate dei volontari di questa volta, mentre fin da quel giorno l'occhio della mente volava al cupolone di San Pietro, che oggi, non lungi da me, mi torreggiava maestoso sull'orizzonte.
       Durante quella giornata Garibaldi pensò di costituire un governo provvisorio, e mandò fuori un proclama insurrezionale.
       Il 2 io seguii Garibaldi a cavallo sin oltre Mentana. Al ritorno eravamo attesi da Corte, Sineo, Negretti e Costa, venuti appositamente da Firenze per indurre il generale a ritirarsi di fronte al destino ineluttabile.

       Ed eccoci al mattino del 3 novembre.
       Un'ora dopo la mezzanotte arrivò il buttero, con il dispaccio urgente del comitato d'insurrezione, che Basso svolse dalla stagnola e portò a Garibaldi, il quale dormiva profondamente. Era il dispaccio, redatto dal Cucchi che rendeva conto di tutto il piano stabilito nel consiglio di guerra, tenuto la sera del 1° novembre, fra i generali alleati, sotto la presidenza del Kanzler; della decisione presa di attaccarci il mattino del 3; dell'ora della partenza, dell'ordine di marcia, i pontificii dell'avanguardia, onore impetrato dal De Charette, i francesi in coda; insomma, di tutto ciò che era a noi opportuno sapere.
       Ma Garibaldi, sia per una sua idea preconcetta, sia, come altri afferma, dietro certe informazioni avute da Parigi, era intimamente convinto, che i francesi non avrebbero marciato contro di lui: e però non credette al messaggio del Cucchi, malgrado la sua categorica precisione. Passò semplicemente il foglietto al Bezzi, di guardia quella notte al quartier generale, dicendogli di ricapitarlo a Menotti; e non aggiunse altro.
       Ai primi albori, il Generale montò nuovamente su la torre, accompagnato da Basso, Bezzi, Guerzoni e pochi altri, e per più di un'ora esplorò ogni angolo della campagna in direzione di Roma. Non vedendo apparire il nemico, forse perché le strade incassate lo nascondevano si volse al Bezzi, e disse: "io non credo che i francesi vengano ad attaccarci. Ci manderanno, per mezzo del nostro governo, l'intimazione di sgomberare...., e nel frattempo noi saremo a Tivoli, con le spalle appoggiate agli Abruzzi”.
       A' piedi della torre incontrò Menotti, che lo cercava per chiedergli d'indugiare la partenza, onde potesse avere il tempo di distribuire certe calzature, che aspettava da Passo Correse; e Garibaldi, accecato dalla sua fatale illusione, gli rispose: "Fa pure, Menotti”. Così rimanemmo a Monterotondo sino a mezzogiorno.
       Io, dopo aver accompagnato Garibaldi durante le prime ore del mattino, ed aver poi fatta colazione dall'amico Boccomini, il medico del nostro battaglione del 1866, mi misi in compagnia del Bezzi, al seguito della colonna, nell'unica carrozza esistente, che aveva portato a Monterotondo, quella stessa mattina, il capitano Benici, aiutante di Nicotera, mandato da Velletri a farci avvertiti, che a causa dei dissidi insorti fra Orsini e Nicotera, avendo questi abbandonato il comando, la congiunzione, già ordinata da Garibaldi, non si poteva più effettuare.
       Mentre il Benici esponeva ciò al generale, e gli spossati suoi cavalli venivano governati nelle scuderie del castello, gli artiglieri garibaldini s'impossessarono delle bardature del nuovo arrivato, e, senz'altro, le posero addosso ai loro animali. Benici, un ardente siciliano, montò su tutte le furie, fermò la colonna in marcia, e tanto tempestò e sacrò, persino con Garibaldi, che riebbe i suoi arnesi, e potè invitar noi a seguirlo sui morbidi cuscini della sua carrozza.
       Procedendo lentamente dietro la colonna, ecco, durante una sosta, ci sembra vedere nelle file come il rapido propagarsi di una non so quale aria di agitazione. “Che cosa c'è?”, chiediamo a un milanese, ordinanza di Garibaldi, che frettoloso ci passa accanto, venendo giù dall'avanguardia. "Ghè, che là fa cald!” risponde, accennando avanti, e correndo via. I pontificii avevano attaccato la nostra testa di colonna, e il combattimento era incominciato. Bezzi ed io ci precipitammo dalla carrozza, e rompendo la folla, fummo presto ai primi posti; Benici. Che era la mobilità in persona, ci aveva preceduti da un pezzo.
       Bezzi, appena fu tra coloro che facevano alle fucilate, messosi a capo di un manipolo, aiutò a sconfiggere i papalini, a prendere i pagliai, a munir villa Santucci. Soltanto dinanzi ai francesi, anch'egli travolto dall'onda, si tirò indietro; e fu allora, che avendo voluto, contro il consiglio di Fabrizi, salire sul ciglio della strada incassata, che li riparava, si ebbe le due cosce trapassate da una palla. Uno zuavo e un cacciatore francese. trovatolo a terra, prima lo spogliarono del denaro e de' gioielli, poi, vergognatisi, glieli ridonarono e lo trasportarono caritatevolmente ai pagliai, indi alla chiesa di Mentana, ove fu medicato da Bertani. L'aiutante di campo del generale Dumont gli usò poi ogni riguardo, sopratutto dopo aver saputo che il Bezzi era stato commilitone, durante il 66, del duca Guido Visconti, e di Augusto Verga, il giovine brillante e geniale, così a lungo ammirato nel mondo elegante di Milano, l'uno e l'altro ben conosciuti dal gentiluomo francese nell'inverno del 1859. Egli promise di annoverarlo fra i difensori del castello di Mentana, che avevano capitolato a patto di essere scortati al confine: e per indurre il Bezzi a lasciarsi menare all'ospedale in Roma, gli confermò la promessa in iscritto.
       E fu previdenza saggia. Quando il Bezzi, entrato in convalescenza, volle rimpatriare, il generale Kanzler e il Silvestri si opposero adducendo a pretesto, che egli non era fra i capitolati del castello. Solo l'esibizione della lettera, e quindi l'intervento del nobile ufficiale francese, che fece suonar alta la parola d'onore data sul campo, salvarono il Bezzi dalla prigionia, e gli permisero di ritornar presto a casa.

       Anch'io, come ho detto, facendomi largo traverso le fitte schiere, che ingombravano la strada, raggiunsi finalmente i combattenti, quando il generale Fabrizi ordinava la carica alla baionetta; e anch'io mi ingegnai a guidare i volontari su l'erta del poggio, donde sloggiammo gli zuavi, che seminarono il terreno, intorno ai pagliai preparati per l'invernata, di morti e di feriti.
       Non mi si chieda la descrizione della battaglia nei suoi vari periodi. Le mosse di quella giornata mi sfuggono completamente, e dovrei ricorrere ai rapporti già conosciuti, ciò che non è del caso mio. Ho però vivissimi dinanzi alla mente gli episodi personali, tra cui quello di essermi fermato a dare un sorso della mia fiaschetta a uno zuavo ferito, giovane francese dall'aria distinta, che me lo chiese in grazia, e a stendergli sul corpo, tremante per il freddo, il mantello che gli staccai dalle spalle. Portava, ricordo, gli occhiali a molla; e rammento tuttora, che non potei trattenermi dal dirgli, mentre lo soccorrevo: "vous voyez, monsieur, que nous ne sommes pas des brigands", perché mi tornò alla memoria in quel punto, una frase, che mi ferì a volo, passando vicino ad alcuni zuavi per le vie di Roma.
       Subito dopo comparvero i densi battaglioni [ francesi, che noi, per le ragioni addotte dal Generale, e per aver udito i pontificii asserire, che le truppe di Napoleone avrebbero custodita la città, e ceduto ad essi il vanto di annientar Garibaldi, scambiammo per i legionari d'Antibo, i quali, com'è noto, vestivano l'uniforme francese. Anzi era tanto radicata in noi questa convinzione, che nella relazione del fatto di Mentana, scritta, non appena di ritorno in Firenze, dal Guerzoni, e firmata anche da me, un tale errore è mantenuto.
       Le due linee avversarie stettero per poco ferme, una di fronte all'altra, scambiandosi i colpi di fucile; poi la nostra cominciò a piegare, nè però la francese affrettò la sua marcia misurata. Seguendo il movimento generale di ritirata, io capitai presso uno dei nostri cannoni, collocato da un ufficiale, che credo fosse il Fontana, di Trento, in un campo di radi ulivi, ove si era affondato fino all'asse. Gli uomini, che lo servivano, tentavano di trascinare il pezzo fuori di quella fanghiglia, appiccaticcia come pece; non riuscendovi, invocavano l'aiuto de' passanti. Mi posi anch'io a tirar la corda, ma la grandine delle fucilate cadeva sempre più fitta, e gli uomini, un dopo l'altro, scampavano, malgrado gli eccitamenti del giovine ufficiale. Finii a fare come gli altri, e riparai in un avvallamento, ove mi trovai solo, udendo sul capo il fischio delle palle, ma non vedendo più nè amici nè nemici, perchè questi non ci inseguivano. Avviatomi verso Monterotondo, per il viale che mena al paese, scorsi, dietro un lecce, il Nuvolari, che osservava i movimenti dei francesi. Ci comunicammo le nostre considerazioni sul rumore dei colpi, prodotto dai fucili nemici, e io proseguii, saputo dal Nuvolari che lassù avrei trovato Garibaldi e i volontari, non poco ansioso per la sorte di mio padre.
       Mio padre era rimasto indietro, il mattino, per varie faccende, fra le altre quella di accompagnare i suoi amici feriti dal convento dei cappuccini, o dalle case in cui s'erano rifugiati, alla stazione ferroviaria, diretti a Terni. Così aveva accomodato nel treno il Mosto, di Genova, ferito, all'attacco della porta di Monterotondo, assai gravemente alla gamba; e insieme con lui Paolo Carcano, di Como, allora conosciuto da tutti i volontari con il soprannome di piccirillo, oggi deputato al Parlamento, colpito nel braccio, anche in quel fatto, da una palla che sempre ha dentro le carni. Mio padre si era quindi avviato verso il campo di battaglia: ma incontrati i nostri che si ritiravano, e non vedendo me, e credendomi perduto, aveva seguito Garibaldi su la torre; e mentre questi guardava dall'alto, solitario, ciò che seguiva, egli, ritrattosi nell'ultima camera, appoggiato il capo alle mani, muto si concentrava nel suo dolore....
       Al mio apparire nella corte del castello, i vecchi commilitoni mi chiamano e mi fanno cenno di accorrere. Bizzoni mi trascina: "va su, presto, alla torre; tuo padre ti cerca”. E sulla scala incontro mio padre, che avvertito del mio arrivo dalla voce fatta correre in un baleno da quei giovanotti, che tutti gli volevan bene, mi si getta fra le braccia, profondamente commosso.
       Poco appresso, insieme con altri pochi fidi, salimmo da Garibaldi. scendemmo al suo seguito dalla torre, e silenziosi lo aiutammo a porsi in sella. Mio padre, Alberto Mario, Anton Giulio Barrili, Benici ed io raggiungemmo Passo Correse nella solita carrozza.
       Come il bravo colonnello Caravà e i suoi granatieri ci accogliessero da vecchi camerati; e come poi, il 4 novembre, si proseguisse alle 7 e mezzo del mattino, in ferrovia fino a Figline, e là, alle 5 di sera, il generale venisse arrestato, tutti sanno: e non io starò qui a ripeterlo, quell'episodio, così grandioso e drammatico nella sua semplicità.
       Io non feci più nè meno degli altri; e però non posso lasciar andare in pace quella versione, che mi venne riferito fosse allora corsa sul conto mio: ossia, che con ira generosa, all'udire la intimazione del colonnello Camozzi, io avessi portata la mano alla impugnatura della sciabola. Ma se non avevo sciabola!
       Ben altro di meno fiero abbiamo fatto, Missori, mio padre ed io, in quella circostanza. Allorchè la stazione di Figline venne inesorabilmente chiusa a tutti, noi tre, portatici alla estremità del piazzale esterno, penetrammo fra le tenebre sino all'ultimo vagone, vuoto, di terza classe, e, soli fra i commilitoni, viaggiammo nel treno, che portava Garibaldi prigioniero, sino a Firenze.
       Quando il convoglio si fermò all'alba nella stazione di Santa Croce, già sgombra e guardata dalle truppe, noi ci avvicinammo, non contrastati, al nostro duce venerato. Ei ci abbracciò tutti tre, e ci salutò per nome; poi, fra i raggi del sole nascente, che lo avviluppavano come in un nimbo d'oro, ei si dileguò da' nostri occhi.

* * *


       Con gli avvenimenti dell'Agro romano del 1867 ha termine l'epopea dei volontari in Italia. Ma a me non piace chiudere il libro con il nome di Mentana. Preferisco porre fine alla mia narrazione con un episodio del 1870.
       Non solo io non fui in Italia il settembre di quell'anno, ma, quel che è più, dei nostri casi avventurosi io non ebbi sentore che molti giorni dopo, perchè io era in quel tempo nella regione che il nostro Principe Ereditario visitò due anni or sono, cioè nell'Asia Centrale. E là, quasi nella stessa ora, in cui le nostre truppe entravano nella città eterna per la breccia di porta Pia, io penetravo, con lo stato maggiore del generale Abramoff per la breccia, aperta dal cannone russo, nelle città di Kitab e di Sciaar, poco lungi da Samarcanda, culla l’una, l'altra prediletta residenza del grande conquistatore Tamerlano (1).

(1) Una escursione nel Koka, e Una Spedizione militare in Asia Centrale. - Nuova Antologia, febbraio e aprile 1873.

       Compiuta la spedizione, io ripresi, su lo scorcio del settembre, la via dell'Europa, appena consapevole di una prima notizia intorno allo scoppio della guerra fra la Francia e la Germania.
       Giunto pertanto, il 7 ottobre, ad Orsk negli Urali, dopo una fortunosa traversata della steppa Kirghisa, a settentrione del mare d'Aral, durante la quale perdei un equipaggio e due servi massacrati dai predoni nomadi, io non ancora sapevo nulla dell'esito del conflitto delle due grandi potenze occidentali.

       Mentre si cambiavano i cavalli nella stanizza, capitò, dalla via opposta alla mia, un conoscente, il maggiore Travlò, che avendo terminato il congedo, andava a riprendere il suo posto a Tasckent. Or egli appunto mi disse della entrata degli italiani in Roma, e degli avvenimenti straordinari della guerra in Francia, la prigionia di Napoleone III, l'andata di Garibaldi, la marcia de' prussiani su Parigi.
       Travlò non parlava che il russo, lingua che io capivo assai imperfettamente. Non mai sazio di aver nuovi ragguagli intorno al meraviglioso evento d'Italia, mi stillavo il cervello per interpretare le astruse risposte, e costringere il compiacente interlocutore a svolgere in più modi il periodo, finché ne avessi afferrato il senso: lo trattenevo e lo richiamavo ancora, mentre le troiche dei nostri tarantass scalpitavano impazienti. In tal guisa bizzarra io venni a conoscere che Roma apparteneva all'Italia.
       Ma allora, nella gioia ineffabile da cui fui preso nel sapere, che quella meta, suprema aspirazione de' nostri cuori, vietataci una volta sui mesti campi di Mentana, era alfine raggiunta, io lanciai agli echi degli Urali un grido di plauso per il nostro esercito: come quando, granatiere, spossato dal combattimento, avevo salutato la brigata Savoia, sopraggiunta fresca a respingere il nemico, che noi non avevamo potuto debellare.
       E qui, nel nome di Roma, intangibile capitale d'Italia, io prendo congedo dal mio lettore.

       L'intenso piacere, che io ho provato nello scrivere questi ricordi che evocano nomi carissimi, ed eventi pieni di emozioni, non mi fa velo al giudizio. So come i racconti retrospettivi, che riscaldan l'animo del narratore, sovente appaiono tiepidi o freddi a chi li ascolta. Ma se il lettore di queste pagine vorrà sostituire, con la sua immaginazione, a quell'io importuno, perchè sempre in vista su la scena, quei mille e mille ignorati volontari, che senza aver aspirato ad alcuna ricompensa, nemmeno al premio della gloria, spinti dal solo amor di patria, fecero altrettanto e più del protagonista; forse, in questo libro, egli scoprirà un interesse nuovo, e darà a me la suprema, intima soddisfazione di non aver fatto opera del tutto inutile.

F I N E


Appendice

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