Giulio Adamoli
Da San Martino a Mentana

Capitolo Sesto
Sul Chiese
(1866)




       Il battaglione de' bersaglieri volontari, nel quale comandai la seconda compagnia durante la campagna del 1866, era stato di lunga mano preparato da una società di tiratori, che si costituì con quel fine, sotto il titolo di Carabinieri Milanesi, nel 1862.
       Il modo con cui nacque e fu battezzata cotesta società, e come da essa emanò il battaglione, è curioso, e non fu mai raccontato che io mi sappia. Ne dirò in succinto, scostandomi dalla regola seguita in queste pagine, allo intento di spiegare lo spirito e il carattere dei volontari, quali si verranno manifestando nel corso degli avvenimenti. E forse la digressione non sembrerà fuor di luogo, nè priva di interesse, quando si pensi che un corpo di siffatta origine non avrà certamente riscontro per un pezzo negli annali italiani. Chè il paese, come ognun sa, assegnò con le nuove leggi a tutti i cittadini atti alle armi il posto nei ranghi della milizia regolare, assorbì in essa quegli elementi, che eran usi costituire gli antichi corpi dei volontari, e modificando, nello stesso tempo, a seconda del nuovo indirizzo, anche la istituzione del tiro a segno, che ai corpi de' volontari si collegava, ridusse questa non altrimenti che una funzione degli ordinamenti militari stabili, allo scopo di coadiuvare le discipline del servizio obbligatorio.
       Invece nel 1861, e al principio del 1862, le condizioni ancora eccezionali d'Italia, i fasti recenti delle armi garibaldine, e il fascino del condottiero esigevano che i corpi dei volontari fossero a fianco dell'esercito stanziale, quando scoppiasse la guerra contro l'Austria, più o meno lontana, ma non dubbia; e a questo concetto imperioso della pubblica opinione, s'informava anche la legge di reclutamento in vigore, la quale non faceva luogo nella milizia a tanti giovani e veterani, che avevano acquistato sui campi di battaglia il diritto di prestare alla patria, nel giorno del pericolo, il braccio poderoso, a tanti nuovi, i quali, via via che toccavano il limitare della virilità, anelavano di emulare i Compagni anziani, invidiandone gli allori.
       Per offrire a cotesti futuri combattenti, impazienti ed animosi, agio di riunirsi, di addestrarsi e di mantenersi in esercizio sino al momento opportuno, si fondarono allora le società del tiro al bersaglio, che appunto per il bisogno cui supplivano, incontrarono il favore generale e rapidamente prosperarono.
       Infatti il governo per il primo, sebbene la istituzione fosse caldeggiata più dai partiti avanzati che dai moderati, lealmente la incoraggiò. Propose e ottenne dal Parlamento l'approvazione della legge del 4 agosto 1861, che assegnava la somma di cento mila lire annue alla società del tiro nazionale, ed a quelle altre società minori, che avessero dato garanzia di solidità; regolò con vari decreti l'andamento delle associazioni, e nominò presidente della società Umberto di Savoia, il nostro valoroso re, allora principe ereditario, che inaugurò a Torino, con un elevato discorso, la prima gara nazionale, solennemente allestita. Insieme col principe, vennero nominati vicepresidenti Garibaldi e Cialdini.
       I municipi delle città e dei comuni rurali concorsero alacremente a sviluppare la istituzione, tanto costruendo i necessari campi di tiro, quanto appoggiando materialmente e moralmente la formazione delle società. E ogni ordine di cittadini prestò l'opera sua, donando, se non sapeva altrimenti, secondo le sostanze, ogni sorta di premi, che erano contesi ai bersagli in occasione delle feste popolari. Così tutta la nazione, malgrado le ardenti animosità partigiane, si adoperava a preparare per la prossima riscossa anche l'elemento volontario, come l'indirizzo dei tempi richiedeva.

       Milano, e ora vengo al caso nostro, a nessuna città seconda nelle generose iniziative, non si accontentò d'impiantare, con larghezza di disegni, i bersagli, e d'imprimere al nobile esercizio un impulso energico entro le norme indicate dai regolamenti, ma volle porre i suoi tiratori in grado di essere al momento opportuno ordinati e pronti ad entrare in campagna. A tale intento la direzione provinciale del tiro, di cui era presidente l'avvocato Molinari, nominò una commissione promotrice, composta degli uomini più noti per le prove date durante la rivoluzione e le guerre antecedenti, quali l'ingegnere Francesco Broggi, il Castellini, il marchese Luigi Crivelli, Angelo Mangili, Molini di Salazar, Eleuterio Pagliano, Pietro Redaelli, Francesco Simonetta, Giacomo Treves. E questi, con un caldo manifesto, emanato il 19 marzo 1862, invitarono la gioventù a fondare una società consorziale dei Carabinieri Milanesi, come si era fatto in altre città d'Italia, citando particolarmente l'esempio di Genova, ove i carabinieri, istituiti sino dal 1850, mantenendo vigorosa la loro associazione, avevano potuto offrire a Garibaldi quel drappello comandato da Antonio Mosto, che fece miracoli. A Milano, continuava il manifesto, si può e si deve fare altrettanto. E concludeva indicendo un adunanza per il giorno, in cui fosse venuto Garibaldi, e proponendo le norme direttive della futura società.
       Sebbene il manifesto non vi avesse fatta allusione, la denominazione di Carabinieri Milanesi non giungeva nuova a Milano. L'aveva già usata nel 48, prima cioè che la caratteristica di carabinieri, nel senso che qui si intende, se l'attribuissero i genovesi, una compagnia, parimenti armata della carabina federale, che allora si caricava col martelletto, di un centinaio di giovani lombardi, fra cui si contavano chiari patrioti quali Francesco Simonetta, Enrico Besana, Carlo Prinetti, ora senatore del regno, Alessandro Antongini, Carlo Battaglia, Luigi Pedroli...
       Quegli animosi, dopo avere individualmente combattuto su le barricate delle cinque giornate, ed avere inseguiti gli austriaci per un buon tratto, ritornarono per organizzarsi ed equipaggiarsi. Quindi, formati in corpo, guidati da un distinto ufficiale svizzero, il capitano Fogliardi, tennero la campagna a fianco dell'esercito sardo, fin sotto le mura di Peschiera, pagando anche essi il tributo del sangue.
       Io ero un fanciulletto allora, ma conservo ancora vivissima la memoria di quei carabinieri, così marzialmente belli sotto la elegante divisa di color verde scuro e il cappello piumato. E la conservo vivissima della brillante manovra, che essi, accasermati a Monza, eseguirono nel parco dinanzi a una scelta comitiva di dame, di amici, di parenti, accorsi a salutarli prima della loro partenza pel campo.
       Ora, nella patria redenta a libertà, i veterani dell'antica compagnia esultavano, udendo echeggiare ancora una volta il nome dei Carabinieri Milanesi, vedendo il Simonetta, uno dei primi per autorità fra quelli del 48, capitanare i nuovi del 62; ed esumando la storica carabina, evocavano le tradizioni dei loro fasti, pieni di poesia e di entusiasmo.
       L’adunanza inaugurale, indetta nel manifesto, si tenne nel Palazzo Marino il 23 di marzo alla presenza di Garibaldi, incaricato dal governo di percorrere l'Italia e di promuovere la fondazione delle società del tiro. Approvatosi prima lo statuto della società del tiro provinciale, prescritto dai regolamenti, si nominò per acclamazione Garibaldi presidente onorario perpetuo della costituenda società dei carabinieri, e si delegò a lui la scelta della direzione. E Garibaldi, seduta stante, proclamò, fra gli applausi, presidente effettivo Francesco Simonetta.
       Accompagnato dal sindaco Beretta, il generale si recò poscia al bersaglio comunale, ove si era aperta in quei giorni una gara solenne, e vi sparò due colpi. Chiusa poi la gara, distribuì in persona, il 25, i premi, dopo i discorsi Uso.
       Come l'associazione, sorta sotto questi auspici, fiorisse negli anni successivi, dimostrarono, oltre il numeroso concorso alle iscrizioni, l'esito lusinghiero di tante gare provinciali, e la splendida seconda gara nazionale del giugno 1864, disposte tutte dalla direzione dei carabinieri, nella quale troviamo, oltre al Simonetta, mancato alla patria nel 1863, il Mangili, il Castellini, l’Antongini, e altri volonterosi. Quando pertanto la primavera del 1866 chiamò di nuovo gli italiani alla guerra nazionale, la società dei carabinieri, mantenutasi in continuo e progressivo sviluppo, potè attuare perfettamente il suo programma, offrendo al paese una schiera di giovani addestrati nel maneggio della carabina, de' quali chiese al governo l’ordinamento in corpo militare.

       La sera del 2 maggio 1866 la direzione dei Carabinieri Milanesi, insieme colla direzione del tiro della provincia, deliberò: di sopprimere la gara, che doveva aver luogo quell'anno a Gallarate, e d'impiegar le somme stanziate nell'acquisto di carabine federali svizzere, per armare una legione di carabinieri da reclutarsi in Lombardia, quando il governo acconsentisse all'arruolamento dei volontari; d'impetrare il concorso finanziario della deputazione provinciale e della giunta municipale di Milano; di trasmettere al governo il testo della deliberazione col mezzo delle autorità provinciali, invitandole a suffragare coi loro voti le aspirazioni dei tiratori.
       I due consessi, di cui si invocava il favore, non esitarono ad aderire di gran cuore. La deputazione, il 17 di maggio, propose al consiglio provinciale di stanziare diecimila lire per l'acquisto di carabine; la giunta ne propose al consiglio comunale ottomila. Ambedue le proposte vennero approvate senza opposizione, perché esse rispondevano al sentimento generale di sollecitudine, quasi materna, di tutta la cittadinanza, per il battaglione che era da nascere. Il prefetto, marchese di Villamarina, rivolse al Ministero, a nome della deputazione incaricata dalle direzioni dei tiri, formale domanda di autorizzazione per la creazione di un corpo di carabinieri con armi proprie o donate dai municipi. E quando il Ministero, tuttora esitante, accennò alla possibilità di stornare le somme votate all'armamento dei difensori del passo del Tonale, la deputazione protestò per mezzo del prefetto, riaffermando, che quel denaro era destinato al battaglione dei carabinieri, e non ad altro. E il sindaco Beretta, dichiarandosi interprete dei desideri unanimi dei suoi amministrati, insistette con ripetuti telegrammi a Firenze, corroborando le asserzioni della deputazione.
       Anche a Firenze la commissione, nominata il 6 maggio dal governo a fine di preparare il lavoro per la formazione del corpo dei volontari, composta di deputati garibaldini e di generali dell'esercito, assecondò la corrente favorevole ai carabinieri, proponendone con voto unanime, nella seduta dcl 20 maggio, la creazione. E il Ministero, che aveva fino allora nicchiato a costituire de' corpi speciali fra i volontari, vinto da tante sollecitazioni, emanò ai di 27 il decreto per la istituzione delle Guide, ai 29 quello per i due battaglioni, che volle però denominati di Bersaglieri Volontari, genovese il primo, milanese il secondo. In seguito a quel decreto, il Ministero invitò la giunta municipale di Milano a incaricarsi di ricever essa le offerte in denari e in carabine per l'armamento del secondo battaglione, che affluivano numerosissime; e la giunta, accettando, ne avvisò il pubblico con patriottico proclama.
       Non solo Milano, infatti, s'interessava alla creazione del suo battaglione, ma la Lombardia tutta e non poca parte d'Italia vi prendevano parte. Il municipio di Lodi, per iniziativa dei signori Zanoncelli e Zalli, membri emeriti della società de' carabinieri prima, poi arditi bersaglieri del battaglione durante la campagna, donò dieci carabine; altrettante quello di Bergamo; Brescia rilasciò un assegno per ventotto carabine; per trenta la deputazione provinciale di Cremona. La società del tiro di Brescia diede in prestito quindici carabine, e tre ne diedero allo stesso titolo i carabinieri varesini. I corpi santi di Milano votarono 2500 lire; Firenze 4000; Pavia 1000; la deputazione provinciale di Bergamo 3000; 6000 ne mandò il comitato italiano di Londra; 600 Cuneo; e così via.
       I privati gareggiarono di generosità con i corpi morali. Il principe Gonzaga sottoscrisse per venti carabine; per sei il conte Annoni. L'elenco poi delle oblazioni, per piccole somme o per poche armi, è lunghissimo.
       Si raccolsero circa quarantamila lire, se non ho fallato il conto, che ho rifatto sui documenti degli archivi municipali, messi cortesemente a mia disposizione dall'assessore Cambiasi. Il denaro veniva di mano in mano passato ad Angelo Mangili, Il quale comperava, sia in Isvizzera, sia alla fabbrica d'armi di Brescia finché questa poteva somministrarne, le carabine modello federale 1856. del costo di centoventi lire ognuna, munite della baionetta e degli accessori. Ben presto, con cotesti acquisti, e con le carabine donate direttamente, o già possedute in buon numero dai tiratori, si assicurò l'armamento completo del battaglione.

       Mentre lo slancio dei concittadini pensava a fornire le armi, il lavoro per la organizzazione del corpo, sotto la direzione del maggiore Castellini, s'iniziava e si continuava indefessamente da zelanti patrioti, e dagli ufficiali, che gli si andavano a poco a poco aggregando. Uomini, uniformi, caserme, equipaggiamenti, a tutto si provvedeva con attività singolare; e grazie al buon volere generale, e sopratutto alla tenacia intelligente, all'energia instancabile del Castellini, al suo giusto criterio nello assegnare il compito ai subordinati, ogni cosa fu ordinata con rapidità veramente prodigiosa.
       A definire le varie vertenze con il governo, e a presentare il modello dell'uniforme, studiato da noi insieme con il comando del primo battaglione genovese, Castellini delegò me. Recatomi a Firenze il 3 di giugno, sbrigai l'incarico, fors'anco mercè l'intervento dei deputati amici, con una speditezza che, trattandosi di avere a che fare con la burocrazia, sembra inverosimile. Presi al balzo l'approvazione del modello dell'uniforme del dicastero della guerra; in una seduta concertai con il direttore generale delle gabelle, Capellari della Colomba, l'entrata in franchigia dalla Svizzera, per le dogane di Chiasso e Poschiavo, delle munizioni per le nostre carabine; il 7 ero già di ritorno a Milano.
       La nuova uniforme non differiva molto dalla antica dei carabinieri genovesi. Si componeva della giubba, larga e comoda, di panno grigio con mostre e filettature nere, tenuta stretta alla vita dalla cintura di cuoio nero, che portava baionetta e giberna; dei pantaloni dello stesso panno, con banda nera larga due centimetri e mezzo; e del mantello a uso bersaglieri regolari di stoffa azzurra, col cappuccio. Un savio suggerimento del Ministero ci fece rinunciare al cappello piumato, e adottare il berretto grigio filettato di nero come il rimanente. Del resto il Ministero, assegnatoci un fondo di massa di centocinquanta lire per ogni individuo, con l'obbligo al corpo di sopperire alle eventuali riparazioni e rinnovazioni durante la campagna, lasciò fare a noi.
       Essendoci stata, con prudente consiglio, destinata per sede la città di Bergamo, lontana dalle pericolose lusinghe di Milano, il Castellini v’installò i luogotenenti Tolazzi e Travelli per allestire la caserma di Sant'Agostino, lieta invero per la purezza dell'aere, e per l'incantevole panorama, ma povera di suppellettili; e, il giorno 4 giugno, vi condusse in persona il primo convoglio di reclute, accolto festosamente dalla cittadinanza. Al mio ritorno dalla capitale, mandò poi subito me ad assumere il comando di quel deposito, mentr' egli rimaneva a Milano a sorvegliare l'esecuzione degli appalti conclusi con i fornitori, il sarto Todros, il Ghezzi, il Cesati, ecc., a sollecitare le consegne, a completare gli approvigionamenti, aiutato sempre e in tutto dall'amico suo, il conte Filippo Salis, uomo di speciale competenza.
       
       Agli arruolamenti venne preposto il Frigerio. Con il Mangili e altri, incaricati della società de' carabinieri, egli riceveva i giovani inviati dalla commissione di reclutamento del Monastero Maggiore, la stessa, che aveva già funzionato per i volontari dei reggimenti garibaldini della camicia rossa; li sottometteva a un esperimento di tiro, qualora non fossero già iscritti nella società, e quindi li dirigeva a Bergamo. Apertisi i ruoli ai primi di giugno, si chiusero il 12, essendosi raccolto in quel breve periodo il numero sufficiente di volontari per completare la bassa forza del battaglione, circa cinquecento uomini, in massima parte provenienti dalla società dei carabinieri. Si continuò però ad accettare al deposito di Bergamo i ritardatari.
       Il maggior contingente del battaglione apparteneva alla regione lombarda, poi alla veneta, specialmente al Friuli. Avevamo parecchie decine di trentini, i Sizzo, fratelli a donna Elena Cairoli, e i fratelli Martini; alcuni liguri, smarriti non so in qual modo nelle nostre file; un torinese, Pasquale Corte, il nostro console alla Nuova Orleans; pochi d'altre parti d'Italia. Dai quarant'anni in giù, si trovava uomini di ogni ceto; in preponderanza molto sensibile, l'elemento colto, professionisti di ogni facoltà, sopratutto ingegneri, studenti, commercianti, due preti, don Giuseppe Bernasconi di Como, tiratore abilissimo ed appassionato, ora curato a Civiglio, e don Giuseppe Cavalleri, curato a Zocco di Erbusco.
       Per l'origin sua, e per l'accurata cernita degli uomini, il battaglione godeva di una speciale riputazione. Ne fanno fede un intero archivio di lettere, di commendatizie, di istanze per coloro, che agognavano a trovar posto, nei suoi ranghi. "Il tuo battaglione è quello, fra tutti i corpi dei volontari di Garibaldi, che gode a Milano di maggior credito, e quindi di maggiori speranze; e ciò non è un complimento, ma la pura verità”: mi si scriveva il 19 giugno. E Filippo Tranquillini, delle Guide, presentandomi sette suoi amici trentini, mi diceva a' primi di quel mese, come tre di loro, antichi caporali dei bersaglieri, preferissero di venir con noi come semplici soldati, anzi che andare altrove con il grado di sergente.
       Naturalmente, con un assieme così fatto d'individui, bisognava usare metodi di disciplina un po' diversi dai soliti: far giocar molto la molla dell'amor proprio, e molto profittare dell'entusiasmo, che dispone all'abnegazione, guardandosi però bene dal concedere confidenze neppure agli amici, ed affrontando francamente la riputazione di severità, anche di durezza. Del resto, cattivi soldati, nel significato vero della parola, non ne avevamo; ma ne avevamo parecchi di svogliati, venuti solamente per forza dell'opinione pubblica, che non tollerava più nessun giovane a casa. Una classe singolare formavano poi alcuni, bravi figliuoli in fondo, che la smania santa di servir la patria aveva spinti, inconsideratamente, ad arruolarsi, con soverchio sacrificio dei loro interessi. Costoro incominciaron sin da Bergamo a chieder licenza, sia per dare un'occhiata al negozio deserto, sia per sbrigare un affare sospeso, sia anche per curare la mamma o la bimba; ed entrati in campagna, alla prima fermata che per poco si prolungasse, ritornavano alla carica, protestando che avrebbero ben saputo accorrere per il momento della battaglia, come se questa si dovesse dare a giorno fisso. Di solito si teneva fermo; ma alle volte, pur arrovellandosi, si cedeva.
       La classe dei tiratori veri e provetti recriminava per una ragione in verità molto seria. Essi avevano creduto, che si dovesse organizzare un corpo anche ristretto, ma speciale, di fanteria pesante, sulla base della stabilità e della saldezza; un corpo, quale lo richiedeva l'arma, disadatta alla manovra svelta, anzi pericolosa, a cagione del doppio scatto, ma fatta apposta, con la grande precisione e la lunga portata, per la guerra di posizione; un corpo, quale avevano vagheggiato durante le esercitazioni eseguite tenacemente per tanti anni, per cui, certi oramai di colpire il nemico a parecchie centinaia di metri di distanza, si ritenevano invincibili nei posti di difesa, mentre, per mancanza d'istruzione conveniente, si sentivano impacciati per gli assalti impetuosi. Avrebbero poi voluto esser comandati da ufficiali posati, esperti in materia di tiro, provenienti dall'artiglieria o dal genio. Ma in que' tempi e con quella ressa, chi mai, là a Firenze, pensava a curare simili inezie? In que’ tempi, in cui una qualunque divisa addosso, un fucile pur che fosse in spalla, il desiderio di andare a Venezia nel cuore, pareva dovessero bastare per creare il soldato e condurre alla vittoria? Si era invece imposto ai carabinieri il titolo, l'organizzazione, gli esercizi dei bersaglieri; e s'erano prescelti a comandarli ufficiali giovani, arditi, che cercavano di accrescere anzichè moderare la spigliatezza e la mobilità del corpo!
       Riconoscendo che non avevano tutti i torti di recriminare, gli ufficiali usavano verso quei tiratori provati l'indulgenza massima; ed essi dal canto loro, dopo i primi sfoghi, da vecchi soldati, non pensarono più che a eseguire rigorosamente il loro dovere.

       Salvo quest'eccezione di massima, che veramente è capitale, ma alla quale non si sarebbe potuto in quell'ultim'ora portar rimedio alcuno, gli ufficiali del battaglione milanese, nessuno escluso, sia che fossero richiesti dal Castellini, sia che fossero destinati dalla commissione di Firenze, erano fior di militari. Per fortuna nostra; perchè con la scarsezza eccessiva, tale che alle volte a capo di una compagnia si vedeva un ufficiale solo, in tutto e per tutto, se tra questi si fossero trovati de' fiacchi, o de' neghittosi, era impossibile tirar avanti.
       Il maggiore Nicostrato Castellini dava il tono con l'esempio, pagando di persona, non scansando mai una fatica, curando le minuzie con diligente pazienza, studiando i bisogni dei suoi uomini con amore di padre, e procacciando i rimedi senza risparmiarsi. Era alto, magro, nervoso, dalla complessione segaligna, dal carattere risoluto, di vero bresciano. La riputazione di fredda audacia, acquistata sui campi di battaglia, gli dava fra gli ufficiali un'autorità indiscussa, sui soldati un ascendente salutare.
       Nato a Rezzato nel 1831, sino dal 1848, mentre studiava al liceo, aveva presa parte alla rivoluzione di Brescia, e fatta la campagna del Tonale. Venuto in seguito a Milano, ed incorporato nelle compagnie lombarde, fu ferito a Morazzone. Nel 1849 andò a Venezia, caporale, poi sergente nella coorte dei veliti; poscia, da sottotenente, sostenne l'assedio nel forte di Malghera.
       Il 1860, dopo aver cooperato ai preparativi per la spedizione dei Mille, raggiunse il Medici a Palermo; si battè a Milazzo, guadagnandovi il grado di capitano presso lo stato maggiore. Fu presente alla resa di Messina, alla battaglia del Volturno. A Caiazzo arrestò la ritirata precipitosa dei garibaldini, e la protesse, difendendo con pochi uomini, per più di un'ora, una barricata improvvisata; per questo fatto venne creato maggiore, e decorato, in fine di campagna, con la croce di cavaliere di Savoia.
       Non ripeterò qui la parte presa dal Castellini, insieme con il Carissimi e il Nicotera, nella spedizione del 62, che ho narrata nel capitolo precedente.
       Dopo quell'anno il Castellini adoperò la sua attività nel consiglio comunale, nella banca popolare, nei magazzini cooperativi, nella propaganda dei principi democratici in tutte le manifestazioni più benefiche dell'attività sociale. Milano lo ricorda.
       Finalmente, della società dei carabinieri egli fu in origine uno dei promotori più attivi, e negli anni successivi un propugnatore perseverante e convinto del suo sviluppo. Del battaglione, che emanò dalla società, fu iniziatore ed ispiratore; naturalmente, e senza opposizione da parte di chicchessia, ne diventò quindi il comandante.
       Sebbene io non appartenessi alla società de' carabinieri, il Castellini m'invitò fra i primi a entrare nel battaglione; ed io accettai con piacere, perché, avendo preso parte all'ultima campagna come ufficiale nello stato maggiore, vagheggiavo di fare anche la nuova in un corpo speciale. Il brevetto di capitano, che mi fu rilasciato, porta la data del 1° giugno.
       L'altro capitano richiesto dal Castellini fu il Frigerio, che negli anni precedenti si era adoperato assai nei preparativi per la guerra, e, nel 1863, aveva anzi intrapreso un viaggio in Ungheria con una missione delicatissima. Egli venne trasferito dal 2° reggimento, cui era già ascritto, ed accorse lieto, anche perchè autorizzato a tenere il cavallo, reggendo oramai con fatica alle lunghe marce a piedi.
       L'avvocato e deputato Antonio Oliva di Parma, fu proposto da parecchi suoi colleghi al Parlamento, ed accolto dal Castellini come un grande acquisto. Aveva partecipato alla campagna di Roma nel 1849, ed era uomo di riputazione; ma il lungo disuso aveva affievolita in lui la impronta militare. Trasferito al 2° battaglione bersaglieri dal 4° reggimento, ci raggiunse tardi, in Valcamonica.
       Il quarto capitano, inviato dal Ministero, fu Giuseppe Micali, toscano, già capitano dei bersaglieri, gentiluomo fine, elegante, che portò in mezzo a noi la nota del brio e del buon umore.
       Al comando della 1a compagnia, fino all'arrivo del capitano Oliva, rimase Francesco Tolazzi, il più anziano dei nostri luogotenenti, un forte, molto amato da Garibaldi. Da sergente, nell’esercito austriaco, il 1859, aveva disertato prima che scoppiassero le ostilità per entrare nelle file dell'esercito piemontese. Ferito due volte a San Martino, e caduto prigioniero, aspettava di esser fucilato qualora venisse riconosciuto, quando un ultimo assalto dei nostri lo liberò. Fece poi la campagna delle Due Sicilie, seguì Garibaldi nel 62, capitanò nel 64 i moti del Friuli. Con noi, nel 66, si comportò valorosissimamente; nel 67 andò con Acerbi; e morì nel 1889 rimpianto dagli amici.
       Luigi Cantoni, milanese, l'antico compagno di Pavia, fu pure nominato luogotenente nel battaglione, in cui entrò da tutti festeggiato. Egli era una delle figure più caratteristiche che io m'abbia incontrato. All'università, e dopo, lo si chiamò sempre gaìna, non perchè bevesse più degli altri, ma per un certo suo fare, una certa eccentricità di modi e di espressione, per cui quell'appellativo gli si attagliava. Gl'indifferenti poco lo apprezzavano; ma gli amici, che conoscevano quanto cuore, quanta rettitudine, quale freschezza di sentimenti si nascondessero sotto quelle apparenze bizzarre, lo adoravano. Nella scuola i professori se la pigliavano sempre con lui, quantunque non studiasse meno degli altri; e nella campagna del 59, che egli fece nei bersaglieri, i superiori non lo consideravano punto, quantunque si battesse sempre benissimo. Nè la fortuna gli si mostrò meno avversa, da quel tempo in poi; parve anzi lo avesse prescelto a vittima dei suoi capricci.
       Partito da Pavia, ove studiava medicina, e imbarcatosi a Quarto coi Mille, chiese a Talamone di seguire lo Zambianchi, perché riteneva quella diversione più arrischiata della spedizione principale. Fallita l'impresa, fu ricondotto prigioniero a Genova dagli ufficiali dei granatieri suoi antichi commilitoni e condiscepoli, che si divertirono mezzo mondo dell'avventura e dei suoi sarcasmi sempre senza fiele. Imbarcatosi di nuovo con i volontari del Corte, venne catturato sul vapore Charles Georgy e rimorchiato a Civitavecchia. Appena liberato, si rimbarcò, e arrivò proprio in tempo per pigliarsi al combattimento di Reggio una palla nel collo, lì ove d'ordinario si danno de' tagli alle glandole, così che, dopo, nessuno credeva che la cicatrice della ferita fosse dovuta a un caso di guerra. Nè egli si curava di disingannare gl'increduli, poi che un vecchio professore dell'università, ov'egli tornò per completar gli studi, sorridendo ironicamente al racconto de' casi suoi, aveva soggiunto: "già, dopo le campagne tutti i tagli di scrofola sono diventati ferite sul campo!” Vi sono al mondo degli esseri predestinati così.
       Malgrado tutto ciò, il Cantoni non si lasciò mai sopraffare dallo scoramento; lottò con pertinacia, e, come medico, si creò in Genova una clientela, che rimpianse sinceramente la immatura sua morte.
       Un altro camerata di Pavia, mandato al battaglione, ma di tutt'altra indole del Cantoni, fu l'avvocato Angelo Travelli, l'istigatore della messa di Orsini, l'autore della poesia feroce; già bersagliere volontario nella campagna del 59, già ufficiale della brigata Eberhardt in quella del 60.
       Travelli aveva un ingegno non comune e molto cuore, ma sapeva anche farsi valere, sfoggiando volentieri la parola facile ed elegante. Posto direttamente sotto i miei ordini, non soltanto sollevava me dal compito di arringare la compagnia, ma s'incaricava di redigere, in stile forbito, gli ordini del giorno per il battaglione, e di leggerli in mezzo al quadrato. Il Castellini, uomo di azione non di discorsi, non cercava di meglio; a torto però, chè su l'animo di quei giovani, colti e alquanto scettici, facevano più impressione le poche parole vibrate del comandante, che la retorica del Travelli. In un certo ordine del giorno, che dava le norme per la tenuta, il Travelli, avendo con frase manierata raccomandato ai bersaglieri di mostrarsi coquets, non ci volle altro; rimase per sempre sopranominato il coquet.
       Un altro condiscepolo dell'università disimpegnò le funzioni di aiutante maggiore del battaglione, l'ingegnere Emilio Mantegazza, fratello del senatore.
       Un esperto pratico, il dottore Edoardo Boccomini, tornato di fresco dall'America del Sud, fu il nostro medico. È lo stesso, che si creò a Milano così buona fama nella professione.
       Degli altri ufficiali, non avendoli conosciuti prima, non ho nulla a dire, se non che tutti adempirono strenuamente il loro dovere, tanto quelli che partirono con noi da Bergamo, Federico Veronesi, G. E. Cella, Pietro Fontanari, Morandi, Cavallazzi e Banfi, quanto quelli o che ci raggiunsero più tardi, inviatici dagli altri reggimenti, come Angelo Zilio Grandi, o che vennero promossi durante la campagna, appartenenti già al battaglione, come il furiere maggiore Cereda, gl'ingegneri Giulini e Gilardi.
       La deficienza cronica di ufficiali si trovò per buona sorte compensata in parte dal numeroso contingente di sergenti, caporali e soldati, che avendo servito nelle campagne antecedenti, erano in grado di prestare immediatamente un valido aiuto. Noi li ponevamo senza ritardo alla prova, e di mano in mano che ne riconoscevamo i meriti li andavamo destinando ai posti convenienti; ma la fretta fece necessariamente commettere errori grossolani, e promuovere sottufficiale chi non era mai stato niente, e dimenticare caporale o bersagliere chi aveva prima portati i galloni d'argento; eppure, in generale, quei bravi ragazzi si accontentavano di filosofare, ridendo su le peripezie della carriera militare.
       Il furiere maggiore Francesco Cereda, milanese, impiantò ordinatamente la contabilità con l'aiuto di valenti caporali di maggiorità. Tra questi va annoverato Cesare Parenzo, ora senatore del regno, lo storico e il giornalista del battaglione, che brillava per l'ingegno eletto e, non se lo abbia a male, anche per la negligenza della tenuta; tanto che lo si chiamava per celia “brutt brusajè”; nè egli si dava la pena di smentire il motteggio se non al fuoco, con la lunga carabina inglese, regalatagli da Garibaldi.
       Il comando dei bersaglieri dell'esercito c'inviò due istruttori trombettieri, uno destinato al nostro, il secondo a chi sa quale altro battaglione di volontari, e sbalestrato nel nostro per uno dei soliti accidenti di quel tempo. Non avendo ricevuti nuovi ordini, rimase anch'esso con noi; e così in due ci montarono una fanfara famosa. Quei saldi piemontesoni parevano in principio completamente disorientati in mezzo alla baraonda dei volontari; ma ci si fecero, e ne furono contenti, trovando che, in fondo eravamo buoni figliuoli. L'uno dei due nella prima tappa perdette lo zaino, che aveva con piena fiducia consegnato al conduttore del carro del battaglione; e bisognava vedere la meraviglia, che accompagnava la sua desolazione. Per consolarlo i bersaglieri lo canzonavano: "ma credete di essere al vostro battaglione? qui fra volontari ognuno deve pensare al fatto suo”.
       Finalmente non voglio dimenticare que' due carabinieri reali, che ci scortarono durante una gran parte della campagna, prestando il servizio loro con un'abnegazione, con una precisione, e nello stesso tempo con tanta buona volontà, da guadagnarsi le simpatie non solo de' capi, ma di tutti i soldati.
       L'organizzazione pertanto del battaglione, malgrado le numerose difficoltà, progrediva alacremente. La preponderanza degli elementi buoni, de' quali alcuni eccellenti, le solerti predisposizioni della società de' carabinieri, la vertiginosa attività spiegata, suonando la sveglia alle tre e mezzo del mattino, ed impartendo dieci ore di esercizi e di teoria, ci posero in grado di presentarci a Garibaldi, solo tredici giorni dopo l’arrivo a Bergamo, se non nella sostanza, almeno nella forma in completo assetto, e pronti a marciare.
       Garibaldi, la mattina del 17 giugno, dalla stazione ferroviaria venne direttamente in piazza d'armi a vederci manovrare insieme col 1° battaglione genovese non ancora armato; assistette alla nostra sfilata dal balcone di casa Camozzi; indi, congratulatosi di trovarci così bene avviati, promise di chiamarci prestissimo al campo. Noi soli, del resto, e il 2° reggimento, comandato dal colonnello Espinazzi, eravamo in caso di seguirlo; a tutti gli altri volontari mancava ancora molto per essere in grado di entrare in campagna.
       Nell'ordine del giorno del 19 trovo scritte le più minute disposizioni, perchè la partenza potesse effettuarsi "rapidissimamente sotto il comando del capitano Adamoli quando ne venisse l'avviso”. Infatti l'avviso di Garibaldi ci pervenne il 21, e quel giorno stesso salutammo per sempre la caserma di Sant'Agostino, testimone dell'affannoso lavoro, e prendemmo commiato affettuosamente dalla patriottica, città di Bergamo, che ci aveva trattati con tanta cordialità.
       La ferrovia ci portò a Desenzano, donde si proseguì a piedi sino a Portese, sul lago di Garda, ove il battaglione si accantonò, disponendo la 2a compagnia di guardia al porto, presso una batteria già appostata. Castellini profittò della fermata per passare una minuta ispezione alle armi, ciò che la fretta non gli aveva mai permesso di fare.
       Il 22 giugno, Garibaldi venne a Portese, visitò la batteria, e a noi ordinò di raggiungere, il più sollecitamente possibile, Rocca d'Anfo, ove il capitano Ergisto Bezzi, del suo stato maggiore, ci avrebbe comunicate le istruzioni da lui stesso impartite. Ci incamminammo, il 23, per Salò, e dopo la distribuzione delle coperte di lana, in previsione delle fredde notti della montagna, il 24, per tempo, ci avviammo su per la Val Sabbia. Riconfortati gli uomini a Barghe con una buona razione di vino, si tirò innanzi; ma a Vestone, in causa della mancanza di esercizio alle lunghe marce, pur troppo ci lasciammo dietro una coda di spossati, che accaparrando i mezzi di trasporto del paese, ci raggiunsero alla spicciolata. Anche il mio bravo cavallo prestò in quella occasione un grande servizio, portando ora l'uno ora l'altro dei più stracchi, giacchè io camminavo sempre a piedi.
       La sera del 21 arrivammo a Rocca d’Anfo, ove ci aspettava il Bezzi con due compagnie del 2° reggimento (Espinazzi). La 1a era comandata dal capitano Marrani, la 2a dal capitano Ettore Filippini dei Mille: e già da tempo ogni mattina si portavano all'estremità superiore del lago d'Idro per sorvegliare la frontiera, ritirandosi la notte nel forte.
       Il Bezzi, accampando l'ordine perentorio di Garibaldi, quello cioè di raggiungere il confine entro il 24, insisteva, perchè si continuasse la marcia; e Castellini avrebbe acconsentito. Ma radunati a consiglio i comandanti delle compagnie, questi fecero presente la stanchezza dei soldati, e la loro inesperienza, che rendeva l'attacco notturno difficile e pericoloso. L'operazione, nonostante il malumore del Bezzi, fu rimandata all'indomani.
       La ragione, per cui stava tanto a cuore a Garibaldi di passare il confine impreteribilmente nella giornata del 24, e che noi naturalmente non potevamo in nessuna guisa indovinare, era la seguente.
       Garibaldi era stato dianzi avvertito dal generale La Marmora, che l'esercito regolare, in massa, avrebbe varcato il Mincio il 24; e però anch'egli aveva quindi stabilito di passare dal canto suo la frontiera, e invadere il Tirolo, con i volontari, in quel medesimo giorno. A tal uopo si era recato subito ad Anfo per esaminare il terreno, su cui voleva agire, e la mattina del 21, accompagnato da Bezzi e da Basso, aveva percorso in birroccio la strada, che conduce a Bagolino, fermandosi su lo sperone di Monte Suello, che si protende verso Caffaro, e che domina la valle del Chiese e gli sbocchi delle vallate convergenti.
       Studiato così il piano di attacco, Garibaldi era disceso con la stessa fretta, onde raccogliere e rinviare sollecitamente sul posto i reggimenti disponibili, mentre il Bezzi rimaneva ad Anfo con l'incarico dì riceverli, prepararli, e, nel caso il generale ritardasse, incominciare la offesa nel tempo prestabilito. Invece, trovò pronto soltanto il nostro battaglione, chiamato per dispaccio a Portese, e però quello soltanto aveva mandato innanzi, sperando che insieme con le due compagnie del 2° reggimento, già sul luogo, riuscissimo almeno ad iniziare, entro la giornata del 24, il movimento cui egli tanto teneva. Ma neppur noi, come s’è visto, arrivammo in tempo.
       Si presero però, durante la notte, tutte le disposizioni per eseguire l'operazione il 25. Castellini, prima dell'alba, si portò innanzi ad esplorare il campo, e inviò a me, di buon'ora, l'ordine seguente:

       "Signor Capitano
       della 2a Compagnia Bersaglieri
Ella prenderà il comando della divisione, composta della 1a e della 2a compagnia bersaglieri e della la compagnia fucilieri (fucilieri o rossi, come da noi eran detti comunemente i volontari dei dieci reggimenti armati di fucili ordinari e vestiti di camice rosse). Marcerà da Sant'Antonio verso Monte Suello, fin dove troverà il picchetto del nostro esercito, e farà alt, attendendo di vedere come venga, dalla colonna da me diretta, occupato Caffaro; e se riesco senza resistenza ella mi attenda od attenda mio ordine di marciare a Bagolino, dove prenderà posizione prudentemente, come fosse avanti al nemico, ed occorrendo, accampi fuori Bagolino e sarà meglio.
       “Se vi fosse resistenza e chiamassi la sua colonna, ella marcerà colla 1a compagnia di fucilieri in testa, in soccorso della operazione.
       “Sant'Antonio, 25 giugno 1886.
       "CASTELLINI”.

       Eseguendo l'ordine, trovai il picchetto al posto indicato, lo stesso, da cui Garibaldi aveva studiato il terreno, e da quell'altura, donde si abbraccia tanta estensione di paese, rimasi spettatore della fazione, che si svolse ai miei piedi.
       I nostri, passato il ponte del Caffaro, che separa i due Stati, procedevano verso Darzo; e noi, muniti di cannocchiale, li vedevamo diramare le pattuglie, che perlustravano cautamente le case e gl'imbocchi delle vie, come le formiche, tentando il terreno con le piccole antenne, esplorano una macchia sconosciuta: poi rimandavano i messi con le informazioni, invitando i plotoni ad avanzare.
       Nello stesso tempo vediamo spuntare da Storo una colonna austriaca, stendersi in battaglia, e procedere innanzi. Fu allora che il dottor Boccomini ci abbandonò, correndo, dicendomi: "Il mio posto non è qui, ma laggiù, ove si dee combattere”.
       L’adunarsi frettoloso dei nostri per disporsi al combattimento ci assicura, che essi hanno avvertito l’avvicinarsi del nemico; ma non è male abbondare in precauzioni, e però io ordino, che un bersagliere vada giù a riferire al comandante quanto si scorge dal nostro osservatorio.
       Il furiere Toni e il sergente Riva destinarono a ciò lo studente d'ingegneria Orlandi, un demonio incarnato, che si precipitò a salti giù per i burroni, e per compenso si guadagnò una ferita a un piede, che lo tenne confinato in letto per il rimanente della campagna.
       Intanto, fra le due schiere avversarie le distanze diminuiscono rapidamente. Già stanno di fronte, e sparano. Un punto bruno (tali ci appaiono i soldati sul fondo biancastro della vallata) si stacca dalle file garibaldine: poi due, un gruppo, tutta la linea. "È la carica alla baionetta, bravi i bersaglieri!", diciamo. Gli austriaci volgono le spalle, i nostri li incalzano sino presso Storo; poi si raccolgono, si riordinano.
       Un'ordinanza ci porta, insieme con un dispaccio del comandante, i primi particolari del fatto, che abbiamo confusamente intuito piuttosto che capito, fatto, che merita una menzione speciale e perché condotto dal Bezzi e dal Castellini con singolare vigorìa, e perché diede occasione all'episodio eroico del tenente Cella, che illustra non poco il nostro battaglione.
       Una linea di fiancheggiatori austriaci, mascherandosi dietro i boschi, si era spinta lungo le falde di Monte Suello, non avvertita nè da me nè da coloro che erano in basso, allo intento di avviluppare i nostri non appena fosse impegnato il combattimento. L Orlandi, nello scendere, la scorse; anzi dal capitano Ruziczka, rimasto prigioniero, si seppe poi, che quando egli le scivolò accanto fra mezzo gli alberi, venne, a causa della somiglianza della divisa, scambiato per un tirolese, e che solo a ciò dovette fortunatamente lo scampo, che gli permise d'informare dell'agguato l'aiutante maggiore Mantegazza. Questi ne diede avviso al Castellini perchè sostasse, e nello stesso tempo mandò nella selva di castani, alle radici di Monte Suello, due plotoni della 3a compagnia per paralizzare l'azione dei nemici imboscati. Ne seguì uno scambio di fucilate, durante il quale fu appunto ferito l'Orlandi, forse perché la coperta di lana bianca che egli recava a tracolla, lo faceva spiccare in mezzo a tutti, "richiamo alle palle” com'era detto dai commilitoni, i quali avevano deposto quell'impedimento appariscente a Rocca d'Anfo.
       Vedendo fallita la sorpresa, il distaccamento, che l'aveva tentata, cominciò a dare indietro, sempre rasente il monte: e allora il nostro tenente Cella, portatosi innanzi di corsa per tagliargli la strada, affrontò il capitano austriaco, con il quale impegnò un duello a sciabolate, mentre i rispettivi trombettieri li imitavano con le baionette. Il Cella, vigoroso, ma tozzo, accortosi che l'avversario, un colosso addirittura, pigliava il sopravvento, gli si avviticchiò con le braccia, cercando di atterrarlo; il tenente Cantoni, giunto in quell'istante, lasciò andare un fendente sul capo all'austriaco, e lo abbattè; un soldato poi gli diede una brutale baionettata nelle natiche, di cui il capitano si lagnò più tardi come di una slealtà. Ambidue i campioni, ridotti in pessime condizioni, il Cella per due ferite alla testa, il Ruziczka per una dozzina o forse più in varie parti del corpo, furono trasportati a Vestone, e colà medicati dal dottore Riccobelli.
       Il capitano austriaco rimase parecchi giorni assopito; si credeva che morisse. Appena si riebbe, chiese dell'esito del combattimento e del bravo ufficiale, che gli stette a fronte. Udendo che il Cella era di Udine, città dell'impero, si turbò; ma quando seppe che era dei Mille, tentò di sollevarsi, e con un lampo di orgoglio nell'occhio, mormorò commosso: sono contento.
       Garibaldi gli strinse la mano, passando per Vestone; il Cella andò a trovarlo a Brescia, durante la convalescenza, e lo colmò di cortesie.
       Non va dimenticato, nel racconto di questo episodio, l'incidente del cane, appartenente all'ufficiale Grossi, della compagnia rossa, che addentò il capitano nemico, mentre battagliava con il Cella, buscandosi per suo conto una terribile sciabolata. Guarito, e celebrato con il nome i Caffaro, accrebbe poi pietosamente la sua fama, quando non volle abbandonare la tomba del padrone, ucciso il 17 di luglio nel fatto d’arme di Pieve di Ledro.
       E finisco con una parola di spiegazione intorno alla mia condotta durante il combattimento. Se avessi sospettato l'esistenza degli austriaci imboscati ai miei piedi, sarei piombato loro alle spalle per pigliarli prigionieri; se avessi veduto, che le forze nemiche, uscite da Storo, fossero state preponderanti, o più tardi che i nostri avessero titubato, sarei calato giù a furia, senza aspettare nuovi ordini. Ma ignorando l'agguato da un lato, e calcolando dall'altro che non sarei arrivato in tempo a prender parte al primo attacco, stimai opportuno serbare la colonna nella sua forte posizione, pronta ad affrontare qualsisia altro corpo austriaco, che potesse sopravvenire forsanco dalle vallate laterali. I nostri, d'altra parte, decisero così presto della vittoria in lor favore, che mi parve atto di vana ostentazione il correr loro in coda, senza neppure la speranza di raggiungere un nemico disfatto. Credo di aver così operato saggiamente, chè altrimenti avrei senza frutto stancato la truppa.
       Il dispaccio speditomi dopo il combattimento, diceva:

       “Signor capitano Adamoli,
Marci sino a Bagolino; gli austriaci potrebbero voler riprendere le posizioni, da cui li abbiamo scacciati, e perciò potrebbero presentarsi, fiancheggiando sopra Bagolino. Marciate quindi subito, e per informazioni rivolgetevi al brigadiere dei carabinieri di Bagolino, che è pieno di intelligenza. Questa notte forse sarò da voi o domattina, e se avete notizie tenetemi informato.
       "La parola d'ordine a tutto oggi è: S. Primo; la controparola: Pinerolo; e per domani telegraferò per averla.
       “Caffaro, 25 giugno 1866, ore 4 pom.
       "Il comandante N. CASTELLINI.

       "Requisite otto basti per le munizioni e viveri, con otto muli”.

       Giunti a tarda sera a Bagolino, paese alpestre dalle viuzze e dalle piazze anguste, assicuratici che non esistevano nemici nelle vicinanze, disponemmo sommariamente le guardie indispensabili, riserbandoci al mattino di esaminare il terreno e di ordinare allora regolarmente il servizio di avamposti. Stabilimmo però con Tolazzi e Marani di esercitare, durante la notte, una sorveglianza continua; e fu ventura, chè i soldati, inesperti della montagna, ove tutto prende fra le tenebre proporzioni spaventose, fecero nascere un falso allarme, che tanto più impressionava, quanto meno si capiva da che cosa fosse originato, e che solo facendo uso di serie minacce, riescimmo a sedare.
       L'indomani, 26, sotto una pioggia dirottissima, insieme con i comandanti delle altre due compagnie, l’aiutante maggiore speditoci dal Castellini per recare e pigliar novelle, e un ottimo sacerdote del luogo, l'arciprete Castelli, che ci serviva da guida, collocai gli avamposti, che spinsi verso Condino fino al rocolo del Lì, discutendo e studiando con amore d'artista la convenienza di ogni punto, che si occupava. Soddisfatto delle disposizioni prese, ritornavo con gli amici in paese, pregustando la cena, quando un carabiniere a cavallo mi ricapitò il seguente Dispaccio:

       “Caffaro, li 26 giugno 1866.

       "Al ricevere di questa mia, nel modo più riservato e più prudente tanto che nessuno supponga la vostra mossa, riunirete le due compagnie dei bersaglieri e la la del 2° reggimento, e portatele ad Anfo, dove farei calcolo, che potrete giungere alle ore 10 pom., l'ordine partendo alle ore 5 e tre quarti, arrivando alle 7, per darvi modo di partire alle 8: tanto che alle 10 o alle 11 pom., potrete essere alla fortezza della Rocca d'Anfo. Vi recherete in paese, ove io sarò pure, e vi prevengo che dopo un alt di una o due ore, si riparte per fare altre otto miglia non faticose.
       "Confido nella vostra attività e di Tolazzi per essere assecondato, e vi saluto cordialmente.

       "Il maggiore comandante N. CASTELLINI,
       “Al signor capitano Adamoli, Bagolino”.

       Seguivano poi in poscritto indicazioni per viveri, carri, ecc., che ommetto.
       Che cosa poteva mai significare un tale ordine di ritirata precipitosa e proprio all'indomani di aver respinti gli austriaci, e di esserci aperta la via per il Tirolo? La nostra immaginazione presentì avvenimenti non lieti, pur rimanendo al di sotto del vero. Ad Anfo sapemmo finalmente della battaglia di Custoza, e dell'ordine di scendere al piano; ma ancora confusamente, chè i bollettini, in quella benedetta campagna, non brillarono mai per troppa chiarezza. Una cosa soltanto era fuori di dubbio: che a noi, su quei colli già bagnati del sangue piemontese il 1848, era toccata la peggio. Peccato! L'ossario, che più tardi fu innalzato a Custoza, "il solo, il vero monumento dell'Italia nuova", come ebbe a dire il mio caro amico e collega al Parlamento Giustino Fortunato "che segna il luogo ove, dopo tredici secoli, per la prima volta, sotto una sola bandiera, in un solo esercito nazionale, tutti gli italiani si trovarono insieme a combattere lo straniero” ricorda a noi una dolorosa e immeritata disfatta. Peccato!
       La mattina del 27 proseguimmo sino a Vestone, ove, durante la sosta, visitai il Cella, prima che venisse trasportato a Salò in casa Lombardi. Alle 4 del giorno la colonna ripartì, senza lasciare questa volta grande strascico di ritardatari, perchè i più stanchi si eran provvisti a tempo dei veicoli e se n'erano andati avanti. La marcia, diretta prima sopra Salò, deviò poi sopra Cacavero, in seguito a un dispaccio di Castellini, che ci aveva preceduti per parlare con Garibaldi, in cui mi scriveva, che così vi sarebbe stato "risparmio di via per marciare nella direzione, dove moveremo domani all'alba”.
       A Cacavero trovai mio padre, che incominciava la campagna dal canto suo. Quando il generale, insieme con Cairoli e Cucchi, era venuto a Varese, il 12 giugno, per ispezionare il 4° reggimento dei volontari, mio padre lo aveva ospitato ancora una volta nella casa ormai deserta, e lo aveva poi accompagnato nella sua carrozza, la mattina del 13 a Cantù e a Como. In quell'occasione mio padre aveva chiesto e ottenuto licenza dal generale di seguirlo nella prossima guerra, come lo aveva seguito nel 1859; e difatti, quando mio padre venne al campo, Garibaldi, sul vecchio salvacondotto, che dice:

       “Como, 4 giugno 1859.

       "Il signor Adamoli Domenico di Varese è incaricato di missione delicata. Si chiede in conseguenza alle autorità civili e militari di prestargli qualunque aiuto.

       "G. GARIBALDI”.

       “P.S. I comandanti di distaccamento, che devono osservare il nemico, si metteranno in relazione col signor Adamoli.

       "G. GARIBALDI”.

aggiunse semplicemente la postilla:

       “Seguita la missione importante del signor Adamoli.
       “Desenzano, 26 giugno 1866.

       "G. GARIBALDI”.

       E mio padre, munito del prezioso talismano, fece anch'egli la campagna, da borghese, ma più che da dilettante, prestando servigi a tutti, e facendosi da tutti voler bene.
       A Cacavero ci salutammo alla sfuggita; ma lo incontreremo ancora, quando meno lo si aspetterà.
       Il 28 ci riunimmo in Lonato a tutte le forze garibaldine, che il generale aveva lì concentrate per obbedire all'ingiunzione del generale La Marmora. Accompagnato il battaglione al posto assegnatogli dallo stato maggiore dei volontari, ebbi alloggio e gradite cortesie in casa Rossi.
        Non dimenticherò facilmente lo spettacolo che offriva il campo di Lonato, con quella massa, con quel brulichio tutto intorno di camice rosse, fra le quali spiccavano le uniformi scure dei corpi speciali, e dell'artiglieria regolare del maggiore Dogliotti. S'incontravano ad ogni passo vecchi commilitoni; ma fra tutti, la memoria mi rende viva d'innanzi agli occhi la figura caratteristica di Daniele Piccinini, bergamasco dei Mille, famoso capitano della brigata Eber. Infastidito del chiasso che si faceva intorno ai gradi, si era arruolato come semplice volontario non so in quale reggimento; e, sdegnoso, non riconosceva più i compagni quando avessero i distintivi di ufficiale.
        Né mai m'usciranno della memoria certe divise, sconosciute fino a quel tempo, a colori smaglianti, che vidi addosso ad alcuni giovanotti, i quali pranzavano in una bettola a un tavolo presso il mio. Un sergente, coperto con ogni sorta di galloni, entrando disse loro: “domattina alle 3 in sella”. E io pensai: chissà quale ardita ricognizione vanno a tentare, quegli splendidi militari! ma subito udii il sergente soggiungere: “c'è da accompagnare un convoglio di pagnotte al tal reggimento”. Erano i volontari dell'intendenza, che scortavano i viveri, soprannominati i “cavalieri del riso”. Perché poi avessero adottata una magnifica divisa da ussero, nel disimpegno di un servizio così modesto, non seppi mai.
        Impressioni fuggevoli delle poche, uniche ore passate insieme con tutti i commilitoni, durante la campagna! Destinati dopo Lonato ad operare in Valcamonica, col quarto reggimento e con le guardie nazionali del Guicciardi, sotto gli ordini del colonnello Cadolini, non ci riunimmo più agli altri reggimenti che dopo la conclusione dell'armistizio; ed anche allora per poco.
        Partimmo lieti dal campo di Lonato, persuasi, che muovendoci per i primi, avremmo avuto per i primi occasione di menar le mani: né eravamo del tutto spiacenti di allontanarci da tanta moltitudine di gente. Ma presto dovevamo pur troppo mutar di umore, ed accorgerci a nostre spese, come non convenisse ai volontari agire fuori dell'orbita del comando immediato di Garibaldi. Nella seconda parte della campagna, la prova di questa mia asserzione.


Capitolo Settimo: Vezza d'Oglio (1866)

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