Gelasio Adamoli - La direzione de "L'Unità" (1951-1957) - Lettere al Direttore


Il Codice di Peschiera (1953)

           Ho ricevuto numerose lettere sul caso Aristarco-Renzi, da uomini colti e da gente semplice, da vecchi antifascisti e da giovani tuttora alla ricerca di una semplice verità. Ho ricevuto anche lettere da parte di fascisti che hanno coperto con la viltà dell'anonimato — segno di un «costume» tenace quanto la loro boriosa ignoranza — il turpiloquio e le minacce.
           Molte lettere citano episodi delle aggressioni fasciste nei confronti dei quali quelli che hanno ispirato l'articolo che ha fatto chiudere alle spalle di Aristarco e di Renzi la pesante porta della fortezza di Peschiera, appaiono passatempi domenicali. Qualche lettera — come quella di un compagno di Sarzana — ricorda con precisi riferimenti, atrocità e bassezze di cui si rese responsabile in Croazia la milizia fascista, pur sempre «esercito» secondo quelle leggi littorie verso le quali certi poliziotti e certi giudici mostrano immutato ossequio.
           Un «avvocato», nonostante che — secondo una sua dichiarazione — non abbia mai prestato servizio militare a causa di un'imperfezione fisica, ha potuto lo stesso fare tanta esperienza fra una guerra e l'altra da ritenersi autorizzato a lanciare invettive di fuoco contro la mentalità delle «lasagne» e delle «greche». Se pubblicassi la lettera in questione forse offrirei a qualche procuratore militare materia per una denuncia per reato di vilipendio alle forze armate. Capiterebbe allora lo strano caso che l'autore della lettera, non essendo mai militare, sarebbe giudicato da un tribunale civile, mentre il sottoscritto, che si onora di essere ufficiale in congedo dell'esercito italiano, si troverebbe dinanzi ad una corte militare: anche questo sarebbe un bell'esempio dell'«ordine costituzionale» raggiunto dopo tanti anni di governo d.c.
           Non so neanche quanto valore giuridico abbia la proposta, fatta con amara arguzia da un lavoratore portuale, di segnalare alla scrupolosa sensibilità del generale Solinas quegli ufficiali che arricchiscono il prestigio dell'esercito mandando in giro il loro attendente con borse fiorite di gambi di cipolle o che li promuovono al rango di balie asciutte.
           Qualcuno mi ha anche posto il quesito se il principio della continuità sostenuto dal generale Solinas nei confronti di un esercito assurdamente concepito come una entità astratta, avulsa dalle reali situazioni storiche e politiche, passa anche attraverso i battaglioni inviati da Mussolini contro la Repubblica popolare spagnola e attraverso le brigate nere di Salò, quesito che, purtroppo, non appare affatto polemico ma logicamente inserito nei concetti del «codice di Peschiera», quali sono stati espressi dal procuratore militare.
           Non ritengo necessario riprendere qui i vari motivi offertimi dai lettori sul caso Aristarco-Renzi poiché credo che essi abbiano già trovato risposta nell'ampia trattazione fatta dal nostro giornale di tutti gli aspetti di un processo e di una sentenza che potrebbero fare apparire «questi tempi» eguali agli «altri tempi».
           Queste lettere, indipendentemente dai temi specifici trattati, assumono un significato generale, lo stesso significato che ha assunto la profonda emozione suscitata dal processo di Milano nella stragrande maggioranza degli italiani.
           Se con l'arresto e la condanna di Aristarco e di Renzi si intenderà sconfessare con il codice penale fascista il giudizio storico che il popolo italiano ha dato della guerra fascista, l'effetto ottenuto è stato completamente l'opposto.
           Ogni italiano, materialmente o moralmente, porta ancora le cicatrici della guerra fascista e il processo di Milano è servito a ricordare a tutti il diritto di giudicare una guerra le cui nefandezze colpiscono anche quei generali e quei comandanti militari che si sono dimostrati corrotti e vili non meno dei gerarchi fascisti.
           E ancor più quegli italiani che con le armi in pugno lottarono contro i traditori, quegli italiani che diedero vita alle formazioni partigiane, equiparate dalle leggi della Repubblica all'Esercito nazionale (nessun processo per vilipendio è stato mai celebrato per le offese recate alle forze della Resistenza dai vari padri Lombardi o dai vari Giannini o Annuso), hanno riaffermato il loro pieno diritto di giudicare i responsabili delle nostre sciagure.
           Il vero processo Aristarco-Renzi non è stato quello che si è celebrato nell'aula del tribunale militare di Milano e che si è chiuso con l'imbarazzata lettura di una antistorica sentenza, è stato quello che si è celebrato nel Paese nei confronti dei cultori, vecchi e nuovi, del mito bellicista.
           L'unità antifascista che si è creata attorno al caso Aristarco-Renzi ha confermato che certi ritorni sono impossibili e ha permesso di precisare meglio le zone d'ombra della vita nazionale nelle quali si cerca di tenere in vita la muffa del passato.
           Il giornale liberale «Il Mondo» ha scritto: «Si è ricostruita una unità ideale antifascista anche se da questa unità si sono voluti volontariamente escludere il governo e il partito democratico cristiano».
           Farò conoscere a Renzi e Aristarco il contenuto delle lettere che sono affluite sul mio tavolo, colme del risentimento di tanti nostri amici lettori e sempre ricche di spirito patriottico.
           I due giornalisti vedranno certamente cancellata in sede di appello la sentenza di condanna, ma più che la conclusione giudiziaria della loro vicenda ad essi, certamente, interessa il giudizio semplice del popolo: anche queste lettere serviranno a confermare che essi sono rimasti sempre nel giusto e sempre nella luce della Patria.




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