Gelasio Adamoli - La direzione de "L'Unità" (1951-1957) - Lettere al Direttore


Emigrazione all'Est (1953)

Ho letto che il primo aprile è stata giocata una beffa ai comunisti bolognesi per mezzo della diffusione di un volantino in cui si dichiarava l'apertura della emigrazione per l'URSS e si indicavano le sedi del P.C.I. quali centri di raccolta delle domande. Scherzi a parte, è possibile l'emigrazione nell'URSS e nei Paesi dell'Europa orientale? (P.T. - Savona)

           Vorrei anzitutto rettificare una sua frase: la beffa a cui lei si riferisce non è stata giocata ai comunisti di Bologna, ma ai disoccupati di Bologna. Si è trattato di una beffa veramente amara perché concepita proprio da quelle forze politiche anticomuniste responsabili della miseria in cui sono stati gettati e tenuti milioni di italiani e che al primo d'aprile, per un piacevole divertimento di «società», si dilettano a prendere in giro le loro vittime a a speculare sulla speranza e sul dolore della povera gente.
           Su alcuni giornali cattolici la notizia è stata riportata con grossi titoli e credo che gli stessi lettori di quei giornali che non abbiano perduto il senso dell'umorismo abbiano dovuto sentire una profonda commiserazione per certa gente che si è tanto allontanata dallo spirito cristiano da trovare un motivo di derisione e di gioco nell'angoscia dei disoccupati.
           La questione si colora ancor più di viltà quando si pensi che è stato proprio il governo d.c. a levare una insormontabile cortina di ferro fra il nostro Paese e i Paesi dell'Est europeo anche per quanto si riferisce alla possibilità di assorbimento delle nostre maestranze.
           Il nostro governo, senza alcuna garanzia e protezione, ha permesso e permette che i nostri lavoratori vadano a perdere le loro ultime illusioni in Brasile e in Australia, ma ha bloccato ogni possibilità di movimento verso quei Paesi dove sono scomparsi per sempre i sistemi dei negrieri del Brasile e dell'Australia.
           Nell'URSS il problema della manodopera si presenta oggi, dopo l'impetuoso sviluppo della meccanizzazione, in termini diversi che nel passato. Prima della seconda guerra mondiale, particolarmente nel corso delle realizzazioni del primo e del secondo piano quinquennale, migliaia di lavoratori di ogni Paese - anche italiani - furono chiamati nell'URSS per contribuire allo sviluppo della produzione.
           Una serie di fattori diversi, sia di natura economica che di natura politica (da una parte le minori esigenze nell'URSS di manodopera qualificata, dall'altra la maggiore vigilanza imposta al governo sovietico dall'aggressività delle forze imperialiste che nel passato si sono avvalse anche dei canali dell'immigrazione per la introduzione di spie e di provocatori) hanno praticamente ridotto a zero la possibilità per un lavoratore del mondo «occidentale» di trasferirsi nell'URSS.
           Dopo la guerra il problema si è ripresentato in termini di particolare interesse nei confronti dei Paesi di nuova democrazia.
           Polonia, Romania, Ungheria, Cecoslovacchia, impegnate a fondo nell'opera di ricostruzione e di edificazione di una nuova civiltà, non solo hanno richiamato i loro figli che le vecchie classi dirigenti avevano sospinto lungo le strade dolorose dell'emigrazione, ma hanno chiesto anche l'opera dei lavoratori che nei Paesi capitalistici sono assegnati al dolorante esercito permanente dei disoccupati. A Varsavia, ad esempio, nel nuovo quartiere Muranov, creato sulle sterminate rovine del Ghetto, ho visto lavorare, apprezzatissimi, centinaia di muratori italiani.
           Non è colpa dei governi popolari di quei Paesi se anche questi legami di lavoro e di fraternità sono stati rotti.
           Il governo d.c. è giunto a fare riserve sui visti per l'Austria, perché l'Austria è troppo vicina alla Cecoslovacchia e all'Ungheria!
           Comunque il problema degli italiani è quello di lottare qui in Italia per creare le condizioni affinché la nostra Patria possa raccogliere pienamente le energie e le capacità di tutti i suoi figli.




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