Gelasio Adamoli - La direzione de "L'Unità" (1951-1957) - Lettere al Direttore


Calvero (1952)

Avete fatto sull'Unità una grande pubblicità al nuovo film di Charlot «Le luci della ribalta». Sono andata a vederlo, il film mi è molto piaciuto, però non mi sembra che quella storia di un vecchio comico e di una ballerina meriti tanto scalpore. Secondo me erano più interessanti socialmente alcuni precedenti films di Charlot, come «Tempi moderni», «Il dittatore», ecc. (Emilia Leoni, Genova)

           Avrei dovuto sentirmi un po' offeso, per l'amore che ho verso il giornale che dirigo, nel sentir definito «pubblicitario» lo sforzo che abbiamo fatto per far conoscere ai nostri lettori il nuovo film di Charlot, dedicando ad esso lo spazio che ritenevamo adeguato al suo valore e alla sua importanza. Ma nel campo del cinema esiste tuttora una certa confusione per cui si può ammettere che più dell'aspetto culturale ed artistico se ne veda l'aspetto economico e industriale. Mentre nessuno si sogna oggi di definire «pubblicitaria» una recensione, anche a piena pagina, di un'opera di poesia o di prosa o di teatro, o la critica di una mostra d'arte, può capitare che il lettore di un giornale veda nelle fotografie e nelle colonne dedicate ad un nuovo film un allargamento del piastrone pubblicitario.
           Che il cinema sia l'arte popolare del nostro secolo, che la cultura cinematografica agisca fortemente sulla salute spirituale di interi popoli, che l'arte cinematografica sia l'arte nuova e rappresenti il fenomeno culturale più interessante — e sotto certi aspetti rivoluzionario per la grandiosità delle masse che in modo diretto riesce a portare alle emozioni e al ragionamento — dei nostri tempi, sono cose non ancora generalmente avvertite da tutti e non avvertite sempre neanche, da chi ha, al governo della cosa pubblica, il compito di accompagnare e di consolidare lo sviluppo di ogni forma culturale. Il cinema nel mondo occidentale non è ancora entrato nelle scuole, nelle Università, nelle Accademie, e può ancora capitare, come è accaduto in occasione della visita di Charlot in Italia, di sentir qualificato «pagliaccio» (raccogliendo il corrente significato dispregiativo di tale termine, poiché anche i pagliacci possono raggiungere i cieli dell'arte) uno dei più grandi artisti di tutti i tempi, che con la sua umanissima immagine del poveruomo vagabondo ha ispirato poeti, pittori e musicisti, ha commosso ed entusiasmato il monello, come il cattedratico universitario, l'unico artista oggi che faccia ridere e piangere tutto il mondo, che accomuna nei sentimenti l'analfabeta e il filosofo, il negro e l'esquimese, il bottegaio e il giovane sognatore.
           Noi non abbiamo fatto della pubblicità: il nostro giornale, strettamente legato alla realtà e ai sentimenti umani, ha adempiuto al suo compito e alla sua esigenza di commentare e discutere un'opera altamente umana e piena della pura luce dell'arte.
           Lei dice: «Ma dopo tutto si tratta della semplice storia di un vecchio attore e di una giovane ballerina in cui non ho trovato il profondo significato sociale di altri film di Chaplin».
           Ecco, il tema di grandi capolavori è spesso una semplice storia: Giulietta e Romeo è una semplicissima storia di due creature che si amano, il cui amore è contrastato e che del loro amore muoiono. Tutto ciò non può apparire più originale di un fatto di cronaca — e quanti fatti di cronaca riproducono la «storia» di Giulietta e di Romeo! — ma oserebbe lei ridurre il capolavoro di Shakespeare ad una semplice storia di un amore contrastato? E le pare che «Le luci della ribalta» sia solo la storia di vecchio e di una giovane che nel loro incontro ritrovano il senso e la fiducia nella vita?
           Io non sono il critico cinematografico e i miei colleghi critici hanno già, su queste colonne, ampiamente illustrato tutti gli aspetti dell'ultimo capolavoro di Chaplin. Io sono uno spettatore come lei e come tale non concordo con la sua opinione, poiché a mio giudizio se in «Tempi moderni» o nel «Dittatore» più direttamente si trova espressa la polemica sociale, non meno potente è il significato sociale del personaggio di Calvero. Il vecchio attore che aveva riempito le platee e le casse degli impresari teatrali, lo conosciamo spinto alla miseria e alla decadenza quando non «rende» più, ma sempre pieno della indistruttibile dignità umana, capace di riprendere il suo posto di lotta e che ha sempre tanta fiducia nella vita da saperla trasfondere ad un'altra creatura umana che la società aveva spinto fino al suicidio. Ciò di per sè è l'esaltazione della personalità umana che non può essere distrutta dai veleni della società: e quale concetto è più profondamente sociale di questo?
           Calvero sa «che nessuno è mai solo al mondo» e la sua grande fiducia nella vita e negli uomini è il messaggio semplice ma altamente costruttivo che egli lancia a tutte le genti. Calvero è buono e attorno a lui tutti sono buoni, anche gli impresari che pur sono portati a valutare gli uomini sulla base della «cassetta» e la sua stessa morte si trasforma in vita nella trionfante immagine finale della piccola ballerina che egli ha riportato alla gioia della vita. Raccontando ampiamente sull'Unità la storia di Calvero abbiamo fatto della «pubblicità» o abbiamo raccolto un messaggio valido per tutti gli uomini, un messaggio di amore, di bontà, di fiducia?
           Noi continueremo a trattare i temi dell'ultimo film di Charlot, poiché vorremmo che tutti raccogliessero quel messaggio, vorremmo che tutti, come capitato a noi, nell'alzarsi dalla poltrona, con la gola serrata dalla commozione, dopo l'ultima scena del film, potessero guardandosi attorno vedere solo amici e solo uomini che credono nella vita e che insieme procedono per renderla più bella per tutti.




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