Gelasio Adamoli - La direzione de "L'Unità" (1951-1957) - Lettere al Direttore


Chiamarsi “compagno” (1952)

Una simpatizzante mi ha invitato a chiamarlo compagno. Secondo me solo un comunista o un socialista militante ha diritto a chiamarsi compagno. (Noè D'Anna – Sezione Lattanzi – Genova)

           Certamente è un grande patriottismo di partito e, nello stesso tempo, un profondo senso di responsabilità per il prezioso patrimonio spirituale che il Partito ti ha consegnato nel momento in cui sei entrato a farne parte, che ti ha portato a considerare legato la qualifica di “compagno” alla vita interna di Partito.
           Ma questa semplice, umanissima parola che dal vocabolario è passata alla storia, anche se costituisce l'appellativo corrente per gli iscritti al Partito, ha raccolto il suo significato dalla secolare lotta degli oppressi e dei sofferenti ed esprime la concezione stessa che ogni comunista, ogni socialista, ha di tutti gli uomini della terra.
           Nel variare della terminologia usata nelle organizzazioni dei lavoratori appare come l'ansia della ricerca dell'appellativo che più compiutamente e più altamente avesse potuto esprimere una comune speranza, una comune lotta per una comune meta, e avesse permesso di rivolgersi a tutti superando, anzitutto sul piano umano, ogni diversità e ogni differenziazione di origine o di situazione sociale.
           Amico, fratello, cittadino, i termini che si ritrovano negli atti ufficiali delle prime organizzazioni operaie, non potevano esprimere quanto esprime “compagno”, parola profondamente suggestiva sia per il suo significato etimologico (dal latino cum, con panus, pane), sia per il concetto di eguale che esso contiene e che appunto per ciò venne introdotta da Babeuf fra gli organizzatori della “Congiura degli eguali”. Voglio ricordarti alcune magnifiche espressioni di Edmondo De Amicis in un suo scritto “Compagno” contenuto nel libro “Lotte civili”: “Solo l'operaio che s'ode chiamar 'compagno' dallo studente, il 'signore' che si sente dar quel nome dal povero, il dotto a cui lo dice l'uomo incolto, il giovinetto a cui lo dice il vecchio; solo il propagandista appassionato che se lo sente dire per la prima volta dall'amico per un lungo tempo restio, il quale adotta la parola come segno e prova della sua conversione desiderata... questi soltanto, noi soli, possiamo sentire e comprendere la poesia e la forza, il suono delle voci innumerevoli, il soffio possente di gioventù e di vittoria che questa parola racchiude”.
           Compagno è dunque per un comunista qualunque essere umano, poiché la nostra lotta è lotta di liberazione per tutte le creature della terra.
           Nell'Unione Sovietica dove l'eguaglianza non è più una aspirazione ma una conquista degli uomini, tutti i cittadini, iscritti o non iscritti al Partito, hanno sostituito ai precedenti appellativi di cortesia formale “gospodin” (signore) e “gospojà” (signora) la parola “tovarisc” (compagno): tutti nell'URSS si sentono e si chiamano “compagni”. Tu devi sentirti orgoglioso se un cittadino non comunista ti chiede di chiamarlo “compagno”: quel cittadino ha già acquisito tutto quanto di umano e di giusto vi è nella nostra lotta. Egli è già sulla nostra strada e domani sarà certamente, completamente con noi. E forse ti dirà con i versi del compagno Raul Bertolotti, quello che ciascuno di noi ha detto ad un vecchio compagno nel momento in cui ha ritirato la prima tessera del partito:
           Non essere stato con te
           prima di ora
           a soffrire e a patire
           per quella bandiera
           mi sembra di avere perduto
           i migliori anni della vita
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