Gelasio Adamoli - La direzione de "L'Unità" (1951-1957) - Lettere al Direttore


Donne che lavorano (1951)

L'Unità

           Oltre che per la questione trattata, anche per gli accenti di disperazione contenuti nel resto della lettera, e che non pubblico poiché li ritengo di natura personale, lei appartiene certamente alla infinita schiera dei disoccupati che, con la loro miseria e con il loro dolore e, ancor più, con l'angoscia spaurita dei loro figli, esprimono la più terribile e, nello stesso tempo, la più giusta accusa verso un mondo che distrugge il senso della bellezza della vita a tanti suoi figli.
           Ma lei cerca dove non sono i responsabili del suo dolore, lei si guarda attorno e nel lavoro degli altri vuol trovare la causa del suo forzato ozio. La questione è evidentemente molto più complessa e molto più profonda ed è un vecchio gioco delle forze reazionarie quello di distrarre le vittime delle ingiustizie sociali - e fra le vittime evidentemente non vi sono solo i disoccupati - dalle cause fondamentali della loro miseria. Così in questi giorni, con il viaggio di De Gasperi in America, è stato fatto tornare di attualità il vecchio slogan della sovrappopolazione italiana e la vecchia indicazione per gli italiani, che con le braccia incrociate stanno ad osservare i campi incolti e fabbriche chiuse, di riprendere in massa le vie dello sfruttamento di tipo coloniale, le vie dell'emigrazione. (A proposito del diversivo reazionario delle emigrazioni mi auguro che lei abbia letto nel nostro numero di ieri il discorso che ha pronunciato Togliatti domenica scorsa a Bologna: lei avrà certamente riconosciuto nell'umana parola del Capo dei lavoratori italiani la voce stessa della Patria che non rinnega nessuno dei suoi figli).
           Lei, per fortuna, guarda nell'interno della Nazione, ma lo stesso accetta, sia pure inconsapevolmente, un vecchio slogan reazionario che per i nazisti divenne la teoria dei tre "K", secondo la quale le donne non dovrebbero occuparsi altro che di bambini, di cucina e di chiesa. (Kinder, Kuche, Kirche).
           Per noi comunisti l'uguaglianza dei diritti della donna rispetto a quelli goduti dagli uomini, si esprime anche nella possibilità per ogni donna di adire a tutte le vie dell'attività economica. L'indipendenza della donna, premessa per la sua definitiva affrancazione da un secolare stato di minorità e per la conquista di una sua piena personalità è condizionata dalla possibilità per essa di poter esercitare liberamente la professione o il mestiere corrispondenti alle sue attitudini e alle sue capacità.
           La donna che vuol lavorare e che lavora è segno di una profonda emancipazione sociale.
           Lei potrà obiettarmi che tutto questo è giusto in una società socialista, ma non è giusto in una società capitalista dove la stragrande maggioranza dei lavoratori hanno un salario e uno stipendio assolutamente insufficiente per soddisfare i bisogni più elementari della vita? Crede lei veramente che per "lusso" la moglie o la figlia di un operaio, di uno spazzino, di uno statale o anche di un professore, cerchino di trovare una occupazione?
           In una società che manca di una qualsiasi organizzazione collettiva, come è quella in cui viviamo, tutti gli eccessi e tutte le storture sono possibili e sono quindi possibili anche i casi come quelli che forse hanno provocato la sua rampogna.
           Ma non guardi con rancore quella mamma o quella giovane che prendono frettolosamente il tram al mattino per recarsi al lavoro. Quasi sempre, anch'esse hanno da sfamare qualcuno.




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