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Caronte

      Questa prima parte del poema toccammo con qualche maggior particolarità, perché essa è veramente meno plastica e più simbolica di tutte le altre. Con Caronte, che ritiene alcuna cosa della tetra maestà virgiliana, ed è nondimeno mutato assai bene in demonio, cominciamo a farci alla luce tetra dell'inferno e ad incontrare il rilievo, la corporeità: benché la descrizione paurosa della pioggia delle anime sulla trista riviera d'Acheronte tenga ancora assai di quell'indistinto che cresce il terrore. D'indi innanzi ogni cosa si vede e si misura: il limbo sospiroso, ove le grandi anime che non conobbero la salute di Cristo vivono in desiderio senza speranza, e portano con grazia signorile la loro disperazione
      Parlando rado, con voci soavi;
      la bufera che mena ruinosamente in volta, sulla prima soglia dell'inferno, i peccatori carnali; e nei cerchi successivi la pioggia eterna e puzzolente che dimoja i ghiottoni, la maledetta tresca dei prodighi e degli avari che s'azzuffano tra loro, rotolando, come Sisifo, perpetui macigni; e infine la baja laguna di Stige, ove si diguazzano lacerandosi coi denti gl'irosi, e in fondo alla quale, affogati dalle acque fangose, si sforzano di gorgogliare qualche stracco lamento i tristi poltroni, memori allora invano dell'aria dolce e dell'allegro sole che gli doveva stimolare alla vita. Ma ancora non siamo nel vero inferno, in Dite, di cui Dante vede le infuocate moschee e le mura di ferro rosseggiare oltre il fumante pantano di Stige. Qui primamente scontriamo i veri demonii del medio evo, coi quali si mescono, e in ciò la tradizione cristiana dà ragione a Dante, le divinità infernali e le fantasie mitologiche del paganesimo.
      Un angelo, che attraversa l'aria infernale come un fulmine di paradiso, disserra con un lieve cenno di verga le seconde porte del Tartaro, che i demonii avevano chiuse il petto ai due poeti; e s'entra ormai ove sono i dannati veri, quelli che per piena volontà e per baldanza di ragione ruppero le leggi dell'ordine eterno.