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Bianchi e Neri

      I Donati pigliarono le parti dei Neri, ed i Cerchi dei Bianchi; e così, come già un secolo prima si era divisa la città in Guelfi e Ghibellini pel caso del Bondelmonti, si divise nuovamente pel caso dei Cancellieri e per le gelosie dei Donati e dei Cerchi; notabile differenza tra le contenzioni di Roma antica, esercitate intorno alle leggi, ai privilegi, agli ordini civili, e queste miserabili sette municipali del medio evo, che spesso non meritano pure il nome di politiche, e che si perpetuano in eredità domestiche di astii e di vendette.
      I migliori cittadini si travagliavano assai per torre via le occasioni di questi scandali, e con loro consentiva Dante, il quale però inclinava ai Cerchi, o che ve lo traesse l'amicizia fraterna con Guido Cavalcanti, implacabile avversario dei Donati, o che a ciò lo persuadesse giustizia d'uomo leale e prudenza cittadina; imperocché veramente i Cerchi, come più mansueti alle leggi, e manco maneggianti, erano meno pericolosi alla pubblica libertà.
      Nondimeno aveva Dante amici assai distretti anche fra i Donati; e di Forese e di Piccarda, l'uno fratello e l'altra sorella del superbissimo Corso, fece soavissimo ricordo nel suo poema, e però facilmente può credersi ch'egli fosse sincero e persuaso predicatore di pace. Ma la parte dei Bianchi e quella che chiameremo dei buoni, che si frammettevano per concordia, andarono troppo oltre; e parvero dar quasi intenzione di voler rimettere i Ghibellini, o almeno trattarli con equità. Di che insospettito il pontefice, che era l'impetuoso Bonifacio VIII, e temendo che la parte della Chiesa ne scapitasse in tutta Toscana, cominciò a pensare ai rimedii, dei quali tanto più sentiva la necessità, quanto più parevano ingrossare in Firenze gli umori corrotti.
      Infatti già i Bianchi e i Neri erano venuti più volte ai tornititi ed al sangue; il perché, appunto mentre Dante era dei priori (dal 15 giugno al 15 agosto 1300), la Signoria prese il partito di mandar a confino i più maneschi delle due sette. Mai priori trattarono più umanamente gli sbanditi dei Bianchi; o almeno parve così ai Neri, che ne levarono querele grandissime, e misero il papa in gran gelosia che Fiorenza non venisse in mano di un reggimento placabile ai Ghibellini.
      Forse di queste accuse di parzialità fu cagione Dante stesso, che per pietà dell'amico suo Guido Cavalcanti, uno dei confinati, il quale era travagliato da infermità e bisognoso di ricevere l'aria nativa, praticò si che innanzi al posto termine tornasse in Firenze. Comecché la cosa andasse, certo è che i Guelfi di Toscana, aizzati dall'astutissimo Corso Donati a diffidare dei Cerchi e dei Bianchi, come tiepidi e inchinevoli ai Ghibellini, presero il miserabile consiglio di chiamare un principe francese devoto alla santa Sede, il quale abbassasse i Bianchi, e assicurasse la parte guelfa da ogni sospetto.
      Chiamato dal pontefice e affrettato dai Neri, Carlo di Valois, soprannominato Senza terra, più avventuriere che principe, calò in Italia e trasse verso Firenze; di che impauriti i Bianchi e la Signoria, che era di loro parte, inviarono oratore a Roma Dante con altri due cittadini, che mansuefacessero colle buone ragioni l'animo del pontefice. Mentre Dante era intrattenuto da inutili pratiche a Roma, Carlo giunge in Firenze (2 novembre 1301) come ospite e paciere; e poco appresso, ottenuta piena balia per comporre a concordia gli animi dei cittadini, lascia rientrare da confino armati e minacciosi i Neri, e atterrisce per modo la città, che i Cerchi, abbandonandosi d'animo, non fecero difesa, né si valsero delle forze loro. Convien leggere in Dino Compagni e in Giovanni Villani la narrazione delle cose che seguirono, orribili e vigliacche, per poter escusare, anzi giustificare le maledizioni e le imprecazioni fierissime che Dante, che d'essere disdegnoso e intollerante d'ogni viltà si gloriava, ha sparse in tutto il suo poema.