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Ancora sul Lamartine

      Per questo, più che un'opera d'arte, il divino poema è un portato storico, un'incarnazione della coscienza de' suoi tempi. E di quali tempi? «Il ne trouvait rien d'epique autour de lui dans l'histoire d'Italie, dice il francese... des hommes obscurs parfaitement indifferents à la posterité». Così il medio evo che si riassume in Gregorio VII ed Enrico di Lussemborgo, e quella Fiorenza, ove nascevano a un tratto tutte le potenze del mondo moderno, la lingua popolare, l'arte spirituale e la democrazia del lavoro; Fiorenza, dove allora appunto muravasi Santa Maria del Fiore e il Palazzo del popolo, dove poetava Dante e dipingeva Giotto, dove i mercatanti trovavano la cambiale e le istituzioni di credito, e gli artigiani, escludendo dalla Signoria i nobili e gli oziosi, sbozzavano la prima forma di governo sociale; sono pel Lamartine un'epoca, un paese, un popolo mediocri (Cours familier de Litt.,pag. 369, I); anzi tutta la storia del medio evo è per lui una nauseosa confusione di avvenimenti che nella loro perpetua monotonia somigliano al mareggio d'una nave ondoleggiante su un mare agitato dalle tempeste equinoziali (pag. 535).
      Dopo ciò, perché andremo noi cercando nella critica del Lamartine i bruscoli, che a dir vero sarebbero senza numero? In sole tre o quattro pagine troviamo: che la famiglia degli Alighieri era consolare; che Brunetto Latini insegnava a Bologna, e in francese; che Dante vide Beatrice d'undici anni; che i Portinari erano legati d'intimità agli Alighieri; che i versi della Vita Nuova sono senta naturalezza e senza nervo, imitazioni servili di poeti secondarii dell'epoca; che la battaglia di Campaldino fu combattuta contro i Guelfi d'Arezzo; che Dante priore fu avversato dai Bianchi come dai Neri e fu dannato all'esiglio per giudizio del popolo; che esule andò ramingo per la bassa Italia, ora presso i Malaspina di Padova, ora presso gli Scaligeri di Verona, ora presso gli Scala, tiranni di un'altra parte d'Italia (pag. 341-345).
      Ben possiamo ora credere che codesto paja al Lamartine un mal garbuglio, anzi un caos inestricabile, e che perciò egli sclami esser Dante un uomo più grande del suo tempo e del suo poema (p. 368). E con questo inchino accademico ei pensa d'essersi sdebitato verso Dante e verso l'Italia. Ma il vero si è che il divino poema, siccome avviene in opera ove la natura entra più che l'arte, vince di grandezza l'uomo; e chi voglia persuadersene non ha che a cercar tutti gli altri scritti di Dante, e principalmente quelli incili egli s'industria di apparire meno poeta e più uomo; come nelle lettere politiche e nel Convito. Del tempo che Dante ritrasse e che si specchia nel suo poema, non crediamo necessario dir altre parole: età titanica veramente, nella quale la cristianità, per delirio d'amore e per impeto di pietoso e tremendo entusiasmo, cercò di trasumanarsi e di snaturarsi. E veramente di questa ascetica barbarie sono e saranno sempremai paurose e odiose le memorie agli epicurei del cristianesimo ed agli stoici del sensualismo.